Un vestitino bianco – di Mauro Mercandelli
Saggistica, "Autobiografia della collettività", a cura di Andrea Biondo
Al centro nel terzo superiore ci sta mio padre. Un bambino forse appena in grado di camminare sicuramente non di correre. E’ appoggiato sul dorso di un cavallo baio scuro che lo fa sembrare ancora più piccolo.
Mio padre è nato nel 1940, lo scatto deve essere stato fatto in pieno conflitto mondiale, il fotografo, per mettere al centro il bambino, ha escluso dall‘ inquadratura la testa del cavallo. Il cavallo senza testa dà alla fotografia un taglio moderno, “attuale” per l’adesso in cui la guardo.
La donna che lo mantiene in equilibrio deve essere sua madre. Poco probabile che una mamma affidi a qualcun altro la responsabilità di mettere un infante in quella posizione potenzialmente pericolosa. Quindi quella è mia nonna. Non l’ho mai conosciuta ma dai pochissimi racconti di mio padre sulla sua famiglia mi pare di ricordare che non abbia potuto conoscerla neppure lui. Morta da giovane, non so per quale motivo, forse malattia. La nonna sopra un abito nero indossa un grembiule chiaro da lavoro, di quelli che fasciano la vita e salgono a coprire il petto e cingono il collo.
Calze nere sopra il ginocchio e un paio di sandali ai piedi. Non la si vede in viso è rivolta verso il bambino, il braccio teso che lo regge sembra pronto ad afferralo nel caso il cavallo abbia un movimento improvviso.
Non sono mai riuscito a decifrare la prima parola della scritta sul retro della fotografia. La scrittura è incerta di quelle eseguite con lentezza e difficoltà da persone anziane o da chi non scrive spesso. Riesco a comprendere le parole successive “della povera Erina”. Quindi mia nonna si chiamava Erina. La prima parola non la comprendo, rimane misteriosa; così le cifre scritte sotto, intervallate da un trattino come in una data . Ma non possono essere una data, il 61 centrale è incongruente. La prima parola e quei numeri sono la rappresentazione grafica di ciò che rimane nella mia memoria del gruppo famigliare di mio padre, poche impronte, tracce confuse, pochi racconti che messi insieme non
fanno una storia. Certo, qualcuno potrebbe essere in grado di decifrare quella parola e quei numeri.
Potrei anche chiedere ora a mio padre di raccontarmi tutto ciò che non mi ha mai detto della sua famiglia, da dove viene, come è cresciuto. Non so per quale motivo non l’ho mai fatto prima e non lo faccio adesso. Guardo la fotografia e vedo dalla contrazione dello zigomo che mia nonna sta sorridendo anche se non le si vede il viso, vedo frammenti di unghie del cavallo a terra, il lavoro di ferratura interrotto per poter scattare quella foto. Vedo mio padre non consapevole di quel momento che avrebbe lasciato tracce nel tempo e pure che da li a poco sarebbe stato cresciuto da una sorellastra anzichè da sua madre. Vedo un bambino biondo durante la seconda guerra mondiale appoggiato direttamente sul pelo del cavallo, addosso stivaletti bianchi, un maglioncino chiaro sopra un grembiulino a quadretti . Vedo mio nonno, escluso dall’inquadratura, maniscalco di professione, che tiene il cavallo alla cavezza perché non si muova.
E questo mi basta.
Mauro Mercandelli