MEMORIE_Elaborazione del Concept_07- a cura di Paolo Tavaroli, LAB Di Cult 209 FIAF
Laboratori Di Cult FIAF "MEMORIE"
LA GRATITUDINE DEL RICORDO, LA RICONOSCENZA DEL PRESENTE E IL MEMORIALE PER IL FUTURO (prima parte)
Nel concept iniziale al tema MEMORIE offerto dal nuovo Direttore Massimo Mazzoli e dal team di Cult per questo nuovo ed entusiasmante anno di Lab che ci vede cominciare a ragionare insieme e a scambiare le prime idee c’è una precisazione che allude al sottotitolo del progetto – ciò che è stato, ciò che resta, ciò che resterà- che sembra preoccupare maggiormente, nei primi dibattiti svolti: “tematica che può essere affrontata[…] cercando di tessere una trama che possa coinvolgere tutti gli ambiti suggeriti nella traccia rivolti a passato, presente e futuro”.
Assunto come acquisito che lo svolgimento della tematica affrontata come singolarmente veda ciascuno alle prese coi propri ricordi personali e in gran parte con la soggettiva percezione del passato, proverò a dare un contributo in merito alla prima questione illustrata, con riferimento alle mie competenze.
In tempi di forte ricerca di spiritualità forse si dovrebbe avere ben presente quanto scopriamo fotografando: spesso cerchiamo dove c’è bellezza in apparenza e trascuriamo per carenza di sguardo dove essa è viva e presente, per quanto non di immediata, affrettata o peggio di superficiale visione. Un fenomeno analogo sta accadendo per la spiritualità a causa di una smemoratezza o della distrazione generale. Lungi dal criticare nuove forme di ricerca spirituale per non addentrami in discorsi che ci porterebbero troppo lontano, non dovrebbero essere moltissimi coloro che non hanno mai sentito frasi come: “«Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me… Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me» (Luca 22,19; 1Corinzi 11,25).
Qui il termine memoria traduce in greco l’ebraico ZIKKARON e ne contiene tutta la semitica forza concettuale ereditata del Primo Testamento biblico dove per 24 volte, non a caso, viene tradotto con “memoriale”. Si tratta di una azione salvifica di iniziativa divina compiuta nel passato ma che perdura nel presente, affacciandosi sul futuro e con la facoltà di sospingerci con tenerezza e rispetto, quindi solo con la nostra speranza collaborativa, verso il futuro.
Il «memoriale» è dunque ben diverso da una pallida commemorazione patriottica o da un rituale civile e familiare, segnato forse dalla nostalgia per fatti o persone ormai sepolti nella polvere del passato. Il «ricordare» biblico è presenza, è l’eternità che penetra nel tempo e ciò che è eterno non si stinge e non si estingue.
D’altra parte anche nell’italiano “ricordare” sembra esserci un rimando al «cor/cuore»: il ricordare sarebbe, perciò, un «riportare al cuore», facendo rivivere nella complessità della nostra mente/interiorità il passato a più livelli.
Yeoshua di Nazareth, fin da bambino, non evitava discussioni con i teologi professionisti, ma era maestro indiscusso di spiegazione semplice con gesti e parole (e le celeberrime parabole), cioè spesso simboli in azione. Anche nel caso del “memoriale” sceglie come segni in azione il pane e il vino, “frutto del grano, della vite e del lavoro dell’uomo”. Si trattava di affidare ai suoi discepoli e alla nascente piccola comunità una speranza che continuasse a sostenerli nel futuro, con la garanzia della sua misteriosa presenza attiva, sia pure in forma mutata, ineffabile ma concretissima.
E noi fotografi? Narratori per immagini come possiamo raccontare questo trinomio esistenziale così nevralgico nella vita di ogni persona?
Un’idea mi viene dagli scrittori russi classici, così attenti a presentare situazioni a tutti familiari in maniera poco comune, in modo che il lettore considerasse le cose da un punto di vista diverso.
Gogol’ usò un naso e un cappotto per i suoi racconti, secondo la tecnica della “straniamento” (ostranenie).
Tolstoj, dopo aver combattuto nella guerra di Crimea, compreso il lungo assedio di Sebastopoli durato 11 mesi, voleva dire che lo stato aveva fatto in modo che i cattivi dominassero, come i criminali fossero molto meno pericolosi di un governo organizzato che fosse sostanzialmente una forza violenta tenuta insieme da intimidazione, corruzione e pubblico indottrinamento. Egli usò un cavallo come voce narrante.
Cechov diceva: “Tutto ciò che è irrilevante per la trama va eliminato. Ogni elemento della narrazione deve essere necessario e insostituibile. Se nel primo capitolo abbiamo un fucile appeso alla parete, nel secondo e nel terzo deve assolutamente sparare: in caso contrario non dovrebbe essere lì”
Ma queste considerazioni non valgono anche per inostri portfolio?
Siamo abituati ad una fotografia famosissima che sarebbe definita dall’istante presente colto dal fotografo e lasciato al tempo e alla storia con il compito dichiarato di eternare quel momento. Non che non mi piaccia questa fotografia e i suoi bravissimi interpreti: veri maestri. Ma è solo questo il genere accettabile della fotografia?
Oggi va molto di moda la celebrazione del cosiddetto “attimo presente”. Molti tipi di “guru” si tuffano “a pesce” sul discorso, in varie salse e declinazioni.
Peccato che gli studi neuro scientifici smentiscano queste prospettive, anche con una serie di esperimenti e dati assai convincenti.
Ciò che meglio distingue la nostra specie è una capacità che gli scienziati stanno appena iniziando ad apprezzare: il fatto che noi contempliamo il futuro. La nostra peculiare lungimiranza ha dato vita alla civiltà e sostiene la nostra società.
Un nome più appropriato per la nostra specie sarebbe Homo prospectus, perché stiamo bene quando consideriamo le nostre prospettive. Il potere della visione in prospettiva è ciò che ci rende saggi. Scrutare il futuro, consciamente e inconsciamente, è una funzione centrale del nostro grande cervello, come hanno scoperto gli psicologi e i neuro scienziati – piuttosto tardivamente, perché lo scorso secolo la maggior parte degli studiosi assumeva che siamo prigionieri del passato e del presente.
[Martin E.P. Seligman, scienziato, e John Tierney, redattore scientifico presso il New York Times, hanno dedicato la rubrica di Scienze di questo giornale del 19 maggio 2017 alla questione di come la nostra memoria non sia semplicemente un archivio, ma rielabori continuamente l’accaduto. Ciò fa dell’essere umano una creatura lungimirante, o almeno dotata di capacità di previsione. Una caratteristica che non viene alterata da pensieri sulla morte, e che tutti potremmo sfruttare per vivere meglio con noi stessi e con gli altri. Sotto: un’immagine dell’ippocampo dalla rivista Le Scienze]
Risulta sempre più chiaro che la mente è principalmente attratta dal futuro, non guidata dal passato. Il comportamento, la memoria e la percezione non possono essere compresi senza apprezzare il ruolo centrale della visione in prospettiva. Impariamo non immagazzinando ricordi statici, ma continuamente rielaborando i nostri ricordi e immaginando possibilità future. Il nostro cervello vede il mondo non elaborando ogni pixel di una scena ma focalizzandosi sull’elemento inatteso.
Le nostre emozioni sono meno reazioni al presente di quanto non siano guide al comportamento futuro. I terapeuti stanno esplorando nuovi modi di trattare la depressione, ora che la vedono primariamente non come causata da traumi passati e stress presenti, ma da visioni alterate di ciò che ci aspetta in futuro.
La cultura umana – il nostro linguaggio, la nostra divisione del lavoro, la nostra conoscenza, le nostre leggi e la tecnologia – è possibile solo perché possiamo anticipare ciò che gli altri esseri umani faranno nel futuro remoto. Facciamo sacrifici oggi che ci portano a maggiori benefici domani, che sia in questa vita o nell’aldilà promesso da così tante religioni.
Se l’Homo prospectus assume il punto di vista veramente di lungo termine, si ammala? Questo era un assunto che è prevalso molto a lungo tra gli psicologi, quello della “teoria della gestione del terrore”, secondo cui gli esseri umani evitano di pensare al futuro perché hanno paura della morte. La teoria è stata esplorata in centinaia di esperimenti in cui si assegnava alle persone il compito di pensare alla loro morte. Una risposta comune era che si diventava più assertivi a riguardo dei propri valori culturali, come ad esempio il diventare più patriottici.
Tuttavia ci sono abbastanza poche prove che la gente davvero passi molto tempo fuori dal laboratorio pensando alla propria morte o gestendo il proprio terrore della mortalità. Questo certamente non è ciò che gli psicologi hanno scoperto nello studio che teneva traccia dei pensieri quotidiani degli abitanti di Chicago. Meno dell’1% dei loro pensieri riguardava la morte, e anche quelli tipicamente riguardavano la morte di altre persone.
L’Homo prospectus è troppo pragmatico per farsi ossessionare dalla morte, per lo stesso motivo per cui non si sofferma sul passato: non c’è niente da fare su questo. È diventato Homo sapiens imparando a vedere e dare forma al proprio futuro, ed è saggio abbastanza per continuare a guardare dritto davanti a sé.
E per noi creativi?
Con le parole di Benjamin Franklin, «Il miglior modo di prevedere il futuro è inventarlo».
La proposta fotografica potrebbe quindi essere: proviamo insieme a dare un senso al trascorre del tempo
Paolo Tavaroli
Tutor Fotografico FIAF
(Nella Seconda parte: ulteriori sviluppi e precisazioni, Idee fotografiche e primi lavori)