Saggistica

“Il primo libro di fotografia” di David Bate _ seconda parte – a cura di Antonio Desideri

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Seconda parte

 
La fotografia di paesaggio, croce e delizia di ogni fotoamatore che si rispetti. Anzi, probabilmente il motivo principale per cui ci dotiamo di macchina fotografica: immortalare quel luogo che ci trasmette sensazioni, ricordi, che amiamo in modo viscerale, che parla (anche) di/per noi.
Ebbene, David Bate qui si fa particolarmente severo perché, introducendosi nel discorso dalla porta decisamente inevitabile della pittura romantica, mette all’opera una netta suddivisione, quella tra “pittoresco” (parte dai dipinti di John Constable e arriva alla fotografia di Henry Peach Robinson) e “sublime” (ovvero da William Turner per arrivare, ad esempio, ad Ansel Adams).
Naturalmente il discorso è molto più complesso ed articolato di come possiamo svilupparlo qui ma possiamo riassumerlo come segue. Secondo Bate il pittoresco è quella visione un po’ romantica della vita di campagna che viene quindi rappresentata per “come dovrebbe essere” o come immaginiamo che sia e il cui
 

 
intento è quello estetizzante, come si può vedere dal dipinto di Constable dove ogni cosa sembra essere stata disposta appositamente per creare un effetto di realtà oppure, tornando alla fotografia, come in Robinson che fotografa situazioni che sembrano uscite direttamente da una fiaba, con tutto il loro carico di retorica letteraria e “narrativa” a partire dal titolo stesso (“When the Day’s Work is Done”, foto del 1877)
 

 
che pare avere il semplice intento di pacificare ogni cosa, neanche più di documentare il “vero” ma di ricrearlo a tavolino secondo precetti che non sono nemmeno, come abbiamo detto, prettamente fotografici. I due artisti vogliono che il mondo somigli all’idea che ne hanno loro, a quella bellezza artificiosa perché fatta di criteri che quasi la banalizzano invece che, casomai, esaltarla. Questo non vuol dire che i due artisti “falsificassero” in qualche modo il loro pensiero; semplicemente andavano alla ricerca di un’idea di bello che corrispondesse ad aspettative già perfettamente predefinite.
Di contro, ah il “sublime”! Qui Bate si rifà ovviamente al vecchio Kant che è stato forse il primo, o almeno il più profondo, cultore della potenza della natura e del suo scontrarsi con la nostra paura: il sublime ci scuote e ci lascia senza fiato perché mostra tutta la forza, la distanza, l’inafferrabilità finale della natura stessa. Il sublime è «uno spazio associato al rischio, un luogo sinistro, spaventoso, intriso di un’aura di minaccia». Ecco allora il tempestoso Turner di “The Shipwreck” (1805) che ci viene incontro con la sua
 

 
drammaticità, con una forza che non ammette dubbi: restiamo stregati da questa immane potenza e dal pericolo che nostri simili, su quei fuscelli in balia del mare, stanno correndo. La bellezza qui ci scuote. E ci scuotono anche le montagne di
 

 
Ansel Adams perché, pur non contenendo il rischio della morte-in-azione come nei drammi di Turner, è evidente che qui la natura non è un simpatico ed estetizzante tramonto che si ripete uguale ogni sera ma un intero universo che ci ridimensiona, al suo cospetto, al pari di un animale tra i tanti e non certo come l’essere che vorrebbe dominarla.
Il ragionamento di Bate finisce poi per includere anche la fotografia di guerra tra i casi di “sublime”, anche se con la riserva di caso speciale. Sostiene che il senso di minaccia, l’angoscia della violenza e l’orrore dei corpi mutilati o dei paesaggi urbani sventrati e devastati siano una declinazione possibile di questa idea del sublime; il suo punto di vista si fa fortemente interrogativo, come credo sia giusto, quando va a declinarsi con la reazione “psicologica” del fruitore di tali immagini: sarebbe interessante approfondire la dinamica di questo legame particolare tra immagine di guerra e spettatore.
Finiamo con una domanda: e se la fotografia pubblicitaria fosse la natura morta dei nostri tempi? D’accordo, la domanda è volutamente retorica nel senso che la risposta è inevitabile ed è, a mio avviso, positiva: sì, la natura morta oggi è la foto di pubblicità. Se anzi, assecondando l’anglicizzazione del discorso pubblico, prendiamo in considerazione il termine still life e lo traduciamo, per una volta, in senso strettamente letterale ci troveremo di fronte alla “vita fermata”. In senso fotografico, il ragionamento è ancora più pregnante perché che cos’è una fotografia se non l’attimo fermato dall’otturatore?
Detto questo, è possibile leggere una fotografia pubblicitaria come un’immagine qualsiasi, utilizzando cioè la semiotica? Roland Barthes ce lo ha dimostrato senza alcun dubbio, con la famigerata fotografia della pasta Panzani. In “L’ovvio e l’ottuso” c’è un intero paragrafo (pagina 23 e seguenti) in cui il semiologo
 

 
francese dimostra da par suo tutta la potenza del messaggio “culturale” insito in una fotografia inequivocabilmente pubblicitaria. Eppure, per farla breve, ciò che viene fuori dalla sua analisi è che l’osservatore non può far altro che prendere atto di ciò che vede: una certa aura di “italianità” (ma attenzione la pasta Panzani è un prodotto assolutamente francese…) che questa azienda vuole comunicare per vendere meglio la sua merce. Ciò che vediamo parla chiaro, persino lo stile di vita (la retina per la spesa, il pomodoro, il sugo, il “parmesan”…) si rifà chiaramente al nostro Paese. Oggi, forse, un’immagine così non ingannerebbe più nessuno ma all’epoca ebbe la sua ragion d’essere: funzionava. Persino come natura morta, appunto.
Se ora facciamo un piccolo passo indietro, tornando al libro di Bate, ci troviamo davanti due esempi dirimenti. Da una parte, “Red apples” di Irving Penn (1985, quasi gli stessi anni della pasta Panzani) e
 

dall’altra “Hamburger” di Brian Klutch. Considerando entrambi, quali sono, nature morte, troviamo una prima differenza: non esiste più un contesto, un “ambiente” in cui il soggetto ripreso sia immerso o di cui voglia parlarci. Gli oggetti si stagliano ora su fondi così bianchi che sembrano addirittura abbacinanti. Ciò che importa non è più la società a cui fanno riferimento ma la centralità del soggetto stesso, la sua unica presenza, assoluta.
Inoltre, sfido chiunque a considerare la foto di Penn un’immagine pubblicitaria: chi si farebbe convincere dall’addentare una di quelle mele? Ecco allora che la natura morta, cioè la vita fermata, assume un altro significato; probabilmente più vicino al messaggio “politico” che vuole indicare lo stato che abbiamo raggiunto: cibo e consumismo sono tutt’uno, possiamo permetterci di lasciar marcire queste mele. Ne avremo altre, domattina, sui banchi dei negozi, più belle, succulente, come “nuove”. La natura “è” morta perché rinasce ogni volta, nel consumo. Noi non dobbiamo fare nulla, solo guardare queste mele, abbacinati dal bianco che le fa galleggiare per noi, in un limbo senza motivo.
Brian Klutch invece è un vero fotografo di pubblicità e il suo hamburger ha secondo me un caratteristica peculiare che, a questo punto (ed ecco la seconda differenza) manca sia alle mele di Penn che alla pasta Panzani: l’hamburger di Klutch da solo non fa niente, non dice. E’ quasi pittoresco, ha caratteristiche che sono persino banali, le solite. La sua retorica è allora quella di “appropriarsi” di noi consumatori. Lo sfondo bianco è stavolta il vero invito: “prendimi, sono qui e basta. Ci sono per te”. Esso si incarna in noi, noi possiamo averlo, comprarlo e addentarlo (ri)dandogli finalmente senso. Ecco la sua potente retorica in azione: la pubblicità è natura. Ma, senza consumatori, morta.Antonio Desideri

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3 commenti

  1. Il primo commento tocca a me ed è per scusarmi con chiunque leggerà: a un certo punto scrivo “Kant che è stato forse il primo, o almeno il più profondo, cultore della potenza della natura”. ☺️
    È evidente come la mia frase sia un eclatante svarione: è evidente che Kant non sia stato né il primo né l’ultimo, per fortuna, ad occuparsi del tema. Una idea che avevo in mente in un modo, è andata in pagina in un altro. Ho, spero, la giustificazione di aver scritto il pezzo quando ancora si faceva vita normale e, spesso, stavo alzato fino a tardi a curare le mie passioni. Mi scuso ancora con tutti! Ciao.

  2. Dopo aver letto la pubblicazione di Antonio vien sicuramente voglia di acquistare il libro per ripercorrere l’excursus storico della fotografia e indagare i metodi di approccio alla lettura fotografica di Bate.
    In queste due puntate dedicate, le foto mostrate sono state trattate in maniera molto esaustiva e non ho potuto fare a meno di pensare più volte al già citato Barthes, alla famosa foto sulla pubblicità della pasta Panzani e a quant’è importante, nel tentare di leggere una fotografia, porre sempre una giusta attenzione non solo al “che cos’è” del messaggio linguistico, che descrive semplicemente gli elementi di una rappresentazione ma anche andare oltre, scoprendo un messaggio denotato e uno connotato.
    Ho apprezzato molto la recensione di Antonio Desideri, molto profonda e ricca.
    Vincenzo Gerbasi

  3. Complimenti ad Antonio Desideri, si la voglia di acquistare il libro è ormai irrefrenabile.
    Per fortuna la sua analisi è così ben strutturata che se il libro rimane intonso per un lungo periodo ne ho comunque un’idea precisa sul contenuto!!
    Purtroppo un buon numero di libri indispensabili al momento dell’acqusto non sono ancora stati aperti, sembra una specie di malattia.
    Del resto possedere una “biblioteca” significa sapere di avere certi libri e poterli consultare al momento del bisogno.
    Ora attendo la prossima recensione…

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