
Antonio Amaduzzi (classe 1936) è un uomo colto e raffinato, Professore Emerito di Economia Aziendale, ha insegnato – a vario titolo e in 51 anni ininterrotti di carriera – in numerosi atenei.
Socio FIAF dagli anni ’50, oltre alle pubblicazioni sulla rivista Ferrania, che nel numero di dicembre dedicava una sezione ai fotografi entrati in statistica FIAF, una sua fotografia è stata inserita nel volume celebrativo dei cinquant’anni della Federazione.
La fotografia è la passione che lo segue da sempre; il suo modo di fotografare si ispira alla Photographie Humaniste francese e il suo stile inconfondibile nasce dallo studio approfondito di grandi autori quali Henri Cartier-Bresson e l’amico di una vita e “compagno di fotografia” Gianni Berengo Gardin, con il quale condivide la visione fotografica.
Ha pubblicato diversi libri fotografici, realizzato numerose mostre personali e collettive, ricevendo riconoscimenti nazionali e internazionali.
Recentemente ha donato al Macof – Centro della Fotografia Italiana – di Brescia la sua preziosissima collezione di libri fotografici (più di 3.000 volumi, molti dei quali introvabili), classificati in un catalogo di oltre 350 pagine.
Antonio ha il grande dono di riuscire a rendere straordinaria la quotidianità, le sue non sono immagini urlate, ma sussurrate, dove si trova tenerezza, nostalgia, armonia, ricordi e tanti buoni sentimenti. La sua visione del mondo è deliziosa e garbata, così come è lui.
Questa intervista è un dialogo per entrare un po’ nel mondo di Antonio Amaduzzi, dove ogni immagine è un frammento di vita intriso di emozioni, ricordi e poesia.




LLE – Com’è iniziata la tua passione per la fotografia? Qual è stata la scintilla che ti ha spinto a prendere una macchina fotografica in mano?
AA – Mia madre, donna molto attiva, era la fotografa ufficiale della famiglia. Nelle ricorrenze, e in villeggiatura, tirava fuori la sua Kodak a soffietto e poi riponeva in un album le foto scattate e sviluppate. Già da bambino rimasi subito affascinato da quello strumento che fermava i ricordi, per il mio 14mo compleanno mi regalarono una Voigtlander Vito B: ricordo la felicità che mi dava lo scatto, e l’attesa dello sviluppo, e mi resi conto che la passione per la fotografia e per la sua storia mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Iniziai con i ritratti di famiglia per poi dedicarmi a diversi progetti fotografici, partecipai con successo anche ai concorsi FIAF e mi capitò di essere tra i primi in classifica nelle statistiche della Federazione.




LLE – Essendo stato un professore universitario, come hai conciliato la tua carriera accademica con la passione per la fotografia?
Ci sono stati momenti in cui le due attività si sono intrecciate?
AA – Mi sono laureato in Economia alla Bocconi, nel 1958, e subito dopo iniziai a insegnare. Una volta scattai delle foto di nascosto durante un esame scritto e realizzai il reportage “un giorno di esami”. Comunque ho sempre mantenuto un equilibrio tra la mia attività didattica e la fotografia.
LLE – La fotografia è per te una forma di espressione o un modo per documentare la realtà?
Cosa cerchi di trasmettere con le tue immagini?
AA – La fotografia per me è essenzialmente il ricordo di un momento, nelle mie immagini “cerco l’armonia che si nasconde nel caos del mondo” (l’attimo fuggente), cerco di trasmettere la bellezza che c’è nella semplicità.



LLE – Ci puoi raccontare come è nata la tua amicizia con Gianni Berengo Gardin? Come vi siete conosciuti e c’è qualcosa che avete realizzato insieme?
AA – Lo conobbi a Venezia nel 1960 (all’epoca insegnavo a Ca’ Foscari): fu amicizia a prima vista. Ero andato nel negozio di ricordi artistici che gestiva insieme alle zie, mi invitò a cena al Lido, nella casa dove allora abitava prima del suo trasferimento a Milano.
Scoprimmo di avere in comune molte passioni oltre alla fotografia: il modellismo aeronautico, la storia della seconda guerra mondiale e – soprattutto – la collezione di libri fotografici. L’amicizia con Gianni dura ancora oggi, dopo oltre 60 anni di conoscenza.
Nel 1963 Gianni e io decidemmo di passare insieme un po’ di tempo per dedicarci alla fotografia. Lo invitai nella casa di campagna dei miei genitori, a Oriolo Romano, con l’intento di fare gite fotografiche insieme; dormivamo poco poiché dal primo mattino fino a tarda sera perlustravamo la zona fatta di piccoli paesi e di una vasta campagna. Trascorremmo 15 giorni a fotografare, ma in modo autonomo e personale, tranne poche eccezioni con scatti simili. Io riuscii a fotografare uno degli ultimi treni a vapore mentre entrava nella Stazione di Oriolo Romano. Dopo avere esaminato i nostri provini, decidemmo di presentare le foto in una mostra inaugurata a Venezia il 29 febbraio 1964; la mostra fu poi presentata al Circolo Fotografico Milanese, senza indicare il nome dell’autore di ogni singola foto: ricordo che questa cosa fece molto discutere e ne scrisse Giuseppe Turroni sulla rivista Ferrania di giugno 1964. Questa mostra è stata la prima personale sia per Gianni Berengo Gardin, sia per me.




LLE – Quali sono stati i momenti più memorabili che hai condiviso con Berengo Gardin?
C’è un aneddoto particolare che ricordi con affetto?
AA – Ce ne sono tanti, siamo amici da oltre 60 anni e insieme abbiamo girato tutta l’Italia!
Lo coinvolsi nella realizzazione di un’idea che avevo in mente da tempo: Fotografare l’Amore. Volevo raccontare la storia di un amore che sboccia, vive e finisce in un’estate. Mi servivano due modelli e lo splendido paesaggio di Oriolo Romano. Proposi l’idea a Gianni e all’amica Fiorella: ne uscirono foto molto semplici che presentai a vari concorsi riservati al racconto fotografico, ottenendo risultati lusinghieri. Le foto vennero pubblicate su diverse riviste con il titolo: “Gianni, Fiorella, un amore”.
C’è una cosa che ricordo con affetto e che ancora oggi mi fa sorridere: quando andai la prima volta a casa sua, nel suo studio vidi che aveva appesa la riproduzione della prima pagina del New York Times con il titolo a caratteri cubitali: Gianni Berengo Gardin, the Best Photographer of the World.

LLE – Ci sono stati dei progetti che avete realizzato insieme? Se sì, ci puoi parlare di uno in particolare e del suo significato?
AA – Abbiamo realizzato diversi progetti insieme, ma ce n’è uno che ricordo con grande piacere. Andammo a Luzzara per documentare e fotografare – per conto di Bolaffi – la pittura naïf italiana. L’editore, nel 1973, pubblicò il catalogo con testi miei, fotografie di Gianni Berengo Gardin ed “esclamazioni” di Cesare Zavattini. Devo dire che Zavattini era un uomo eccezionale, come non ne nascono più oggi! Mi insegnò a “pulire” i miei testi, diceva: “tu hai scritto questa frase, ti cancello questo, questo e questo… ora rileggila”: era perfetta.



LLE – C’è qualche fotografia che hai scattato e a cui sei particolarmente legato?
Puoi descriverci il momento e l’emozione dietro quella fotografia?
AA – Una delle fotografie a cui sono più legato è stata scattata a Genova nel 1959, intitolata “Chi sale e chi scende”. L’ho realizzata nei pressi della facoltà di Economia: raffigura una donna che sale e un’altra che scende lungo una scalinata. Fu pubblicata su riviste di fotografia e la considero una delle mie opere più belle, perché è nata cogliendo un attimo fuggente in cui c’era una perfetta armonia tra i movimenti delle due figure. Un altro scatto che porto nel cuore risale al 2005, a Parigi, mentre tornavo dall’inaugurazione di una mostra di Gianni Berengo Gardin. Fotografai un bacio sul Pont Neuf, colto in un momento magico in cui il ponte era, stranamente, completamente deserto. Quando mi trovo davanti a scene come queste e riesco a fissarle con la fotocamera, provo un’emozione indescrivibile, quasi come se, in quell’istante, il mondo intero diventasse più armonioso.


LLE – Come vedi l’evoluzione della fotografia dagli anni in cui hai iniziato a oggi?
Cosa pensi delle nuove tecnologie e della fotografia digitale?
AA – Penso che le nuove tecnologie rappresentino una grande comodità, la fotografia è alla portata di tutti, ma io resto fedele alla mia Leica M7.
LLE – Qual è la tua opinione sulla fotografia moderna, spesso legata ai social media e alla condivisione immediata? Pensi che abbia cambiato il valore o l’essenza del fotografare?
AA – La fotografia moderna, strettamente legata ai social media e alla condivisione istantanea, ha certamente trasformato il modo in cui viviamo e percepiamo la fotografia. Da un lato, ha reso la fotografia più accessibile, permettendo a chiunque di raccontare la propria quotidianità e condividerla in tempo reale. Dall’altro, però, questa velocità e immediatezza rischiano a volte di ridurne il valore, trasformando un’arte riflessiva in un semplice gesto effimero e consumistico.
Poi, ora c’è anche l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per manipolare immagini, alterando la realtà in modi che possono essere ingannevoli o addirittura dannosi, creando scene artificiali con una precisione tale da confondere la linea tra reale e inventato, minando la fiducia nell’autenticità delle immagini. Credo sia importante usare queste tecnologie con responsabilità, mantenendo sempre un equilibrio tra creatività e onestà. Però penso anche che l’essenza del fotografare rimanga intatta per chi si approccia con sincerità. La fotografia, indipendentemente dal mezzo o dal contesto, continua ad avere la capacità di catturare attimi unici e significativi. Piuttosto, il cambiamento principale sta nel nostro rapporto con le immagini: oggi è necessario più che mai fermarsi a riflettere per riscoprire il valore di uno scatto oltre l’apparenza.
LLE – Se potessi tornare a lavorare su un progetto fotografico del passato, ce n’è uno che rivisiteresti?
AA – Penso che amplierei il mio lavoro sul villaggio martire di Oradour-sur-Glane, darei più spazio alla parte del racconto.





LLE – Cosa consiglieresti a un giovane fotografo che sta iniziando ora?
C’è un insegnamento che senti di voler tramandare?
AA – Consiglierei, prima di tutto, di lavorare con coscienza e dedizione. È fondamentale studiare la fotografia in tutte le sue sfaccettature: a parte comprendere le tecniche, è essenziale conoscere la sua storia e osservare come si è evoluta nel tempo, cercando di trovare una propria cifra autentica e consapevole.
L’insegnamento che vorrei tramandare è di non accontentarsi mai della superficialità: ogni scatto deve essere il risultato di un pensiero, di un’attenzione sincera verso ciò che si fotografa. La fotografia non è solo un’immagine, ma un ponte tra passato e futuro, un modo per dare continuità alla storia e mantenere vivo il ricordo.



LLE – Infine, cosa speri che le tue fotografie trasmettano a chi le guarda oggi e in futuro?
AA – Spero che chi guarda le mie fotografie, oggi e in futuro, possa percepire il senso di armonia e testimonianza che ho cercato di catturare. Ogni immagine racchiude frammenti di vita e racconta una storia: il mio desiderio è che possano ispirare una riflessione, custodire memorie preziose e ricordare che, anche nei dettagli più semplici, esiste bellezza e significato.
Intervista a cura di Lucia Laura ESPOSTO
