
Inizia quasi sempre con un colpo di fulmine, una folgorazione, un lampo. E poi, contrariamente a quella repentina genesi, la fotografia rimane. Difficile è proprio trovarla e non sempre è determinante la vicinanza con qualcuno che ne abbia già dimestichezza, che la pratichi, che ci lavori. Infine, a innamoramento avvenuto, gli occhi la evocano anche quando non si ha una macchina fotografica a portata di mano: improvvisamente cambia la propria percezione e si sviluppa una nuova attenzione per il mondo, sembriamo essere in continua fermentazione, in costante ricerca.
Una cosa del tutto simile è accaduta anche a Fabrizio Quagliuso, fotografo e filmaker partenopeo che da molti anni vive e lavora a Londra. Nonostante uno zio fotografo che in qualche maniera, sottointesa e indiretta, lo educa al “guardare”, la scintilla è per lui il volume “Shinjuku Plus” di Daido Moryama, scoperto durante una visita alla London Photography Gallery. L’incontro con le sue immagini lo rende consapevole di come la fotografia possa essere quel mezzo espressivo potentissimo in cui egli immediatamente si riconosce. Soprattutto, lo rende consapevole di come sia altrettanto naturale l’interpretazione del mondo senza mai veramente rappresentarlo, in un atto di profonda riconoscenza. Anche il fotografo Michael Hackerman avrà una bellissima influenza sulla consapevolezza della rivelazione fotografica, il suo approccio spirituale lo spinge infatti a una ricerca più emotiva. Due fotografi fondamentali nella sua formazione, dunque.

“Vivo in una terra a metà tra le mie fotografie e la realtà”. È, questa affermazione, una presa di coscienza sincera del posto in cui Fabrizio Quagliuso ha deciso di soffermarsi e, allo stesso modo, è un intermezzo, uno stato d’animo, estemporaneo e atemporale, in cui egli stesso vuole condurci con i suoi scatti. Ancora il numero due che ritorna in quell’intervallo sospeso, come gli elementi che ricorrono quasi sempre nei lavori di Fabrizio: l’ambiguità e il sogno. Arrivano, dirompenti, come nel lavoro “Aritmia”, in cui la ricerca della propria identità attraversa gli spazi della natura nel tentativo di scrollarsi le convenzioni imposte, una corsa senza fiato per ritrovare sé stessi e prendere coscienza del proprio valore.


Si defilano, invece, in “Parted”, un lavoro intimamente profondo che Fabrizio sente di realizzare per metabolizzare la perdita del padre. Scrive lo stesso autore: “La perdita è perdita. Il dolore è dolore. L’assenza è assenza” e, in queste parole, l’ambiguità fa spazio alla duplicità, il sogno si nasconde dietro l’inaccettabilità della morte così che l’autore possa ripartire proprio dalla vita che nasce. L’ambiguità e il sogno, la vita e la morte, l’attrazione e la repulsione, la duplicità che ricorre costantemente nella sua fotografia, in una sorta di cabala periodica dove proprio il numero “due” rappresenta una riflessione sulle cose che ci piacciono meno, sulle ossessioni e il mistero della natura umana. È forse per questo che la forma del dittico rafforza il senso profondo di tutto il suo lavoro, l’accostamento di due, ancora un altro segno: non la rappresentazione del mondo ma la sua interpretazione e la capacità di farlo con un ritmo narrativo fortemente simbolico grazie al quale nascono quelle storie “sotto casa”.

È il caso della sua ultima serie fotografica “Lip Balm Woods”, un’opera di profonda maturità che ha permesso a Fabrizio Quagliuso di entrare nel mondo ovattato e schietto della figlia e della sua migliore amica. Sumira e Carlotta sono infatti legate da un’amicizia profonda, trascorrono insieme momenti di gioco e di confidenza. Come per tutti i bambini, il loro rapporto con la realtà è privo di filtri e di distanze, atteggiamenti che dimentichiamo quando cresciamo, purtroppo. Così egli entra in punta di piedi in quel mondo che appartiene solo a loro, decide di portare fuori quel che invece è stato, fino ad allora, visceralmente dentro e lo fa proprio a partire da un gioco che un po’ tutti abbiamo sperimentato: quello di stropicciarsi gli occhi e assistere all’effetto visivo che accade di conseguenza.






Si chiama “fotopsia” questo generatore di stelline e di riverberi che diventano un filtro della realtà e le conferiscono un’atmosfera fiabesca, così ecco quei “Boschi di burrocacao” che diventano baluardi di una nuova dimensione e accolgono le due bambine nelle loro esternazioni giocose. La natura diventa complice come a voler prolungare il tempo dell’infanzia anche se quella, in ogni caso, intraprende la propria strada e si allontana verso l’età adulta, senza attendere nessuno. Carlotta, più grande di Sumira, esprime quella dipartita con la simbologia del volatile che è pronto a spiccare il volo ma che continua a proteggere la sua piccola amica alla quale passerà quel copricapo come una staffetta, in una sorta di rito che è poi il corso della vita.






Due bambine per un lavoro che reincarna tutta l’esperienza fotografica di Fabrizio Quagliuso, dalla strada al concettuale, e attraverso il quale egli stesso ha fissato momenti altrimenti inenarrabili. Nuovamente il numero due, ovvero le sue vite: quella prima della fotografia e quella attuale, che proprio della fotografia continua a farsi dono e, allo stesso modo, a restituirlo con umiltà e gratitudine.







Testo di Irene VITRANO
BIO di Fabrizio Quagliuso