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La fotografia è un’arma

Non che mi sia mai passato per la mente che l’ordine sia lo stato naturale delle cose, né tantomeno perché sia un seguace di quel metodo MariKon per cui il “magico potere del riordino” sprigionerebbe gioia, anzi!, per me e qualcun altro che conosco il riordino funziona da generatore automatico di nuovi improperi. Ma il fatto è che ogni tanto si rende necessario riportare alla luce cose della cui esistenza si è abbastanza certi, nonostante se ne siano perse le coordinate.

E così, fra i ritrovamenti sottratti a quella stratificazione polverosa che conduce all’oblio eterno ci sono il primo e il secondo numero di un magazine dal titolo “Impegno fotografico”, un trimestrale datato 1980. Qualcosa che devo aver comprato su un banchetto dell’usato nel tentativo di recuperare il tempo perduto, dato che quello era l’anno della mia maturità liceale, e tutto avevo in testa tranne che la fotografia vissuta come impegno.

E di impegnativo in questo magazine senza dubbio c’è già il nome-manifesto, che stuzzica all’istante la curiosità di leggerne l’editoriale o di trovare comunque da qualche parte un perché. Che basta sfogliare un paio di pagine ed eccolo, appena dopo l’indice, dal titolo “Fotografia sociale e politica”, editoriale chiuso con un battagliero “La fotografia resta un’arma: impariamo anche noi ad usarla adeguatamente”. Chiamata alle armi che dialoga evidentemente con la foto di copertina, uno dei  fotomontaggi politici di John Heartfield su cui campeggia la scritta “No pasaran, pasaremos!”, e a seguire con i lavori proposti all’interno del magazine, dalla “lotta per la casa a Roma” di Tano D’Amico, a “un ghetto che si chiama ospizio” di Rean Duilio Mazzone (fondatore e direttore di IF per tre anni).

“Impegno fotografico agisce in uno spazio definito della fotografia documentaria” si legge nell’editoriale a firma della redazione, che dopo aver circoscritto il proprio ambito d’interesse ne specifica l’approccio: “Impegno fotografico non è rivista di estetica formale, né di tecnica della ripresa, ma utilizza un rapporto equilibrato e dialettico tra tecnica-estetica-contenuto-utilizzazione, che solo può dare incisività all’immagine. Le fotoriviste attualmente in commercio sono finanziate, gestite o legate agli interessi dei grandi monopoli del mercato dell’immagine. Il loro contenuto è abbondantemente rivolto alla tecnica fotografica. Raramente le foto vengono presentate come mezzo utile per comprendere e comunicare gli aspetti della realtà sociale, quindi, come mezzo di agitazione. Questa sproporzionata tecnicizzazione meraviglia particolarmente perché sin dagli inizi della fotografia è riscontrabile un suo uso nella lotta politica e di denuncia sociale. Così, oggi, riscontriamo un deficit di informazione valida sia per quanto riguarda la storia della fotografia coscientemente politico-sociale, che il suo utilizzo attuale. Gli editori di impegno fotografico si sono posti l’obiettivo di colmare questo vuoto. Nei limiti delle proprie dimensioni, impegno fotografico è una possibilità per confrontarsi con le esperienze di altri in questo campo e trovare nuovi stimoli per il proprio lavoro.”

Se lo stile ciclostile con tendenza al tazebao ci catapulta nel clima di quegli anni, evocando un intreccio nostalgico fra stagioni storiche e personali da caro diario, la linea editoriale di un magazine così controcorrente, che privilegiava le questioni di senso, linguaggio e genere – e quindi il loro peso specifico rispetto alla pur necessaria formazione tecnica -, appare ancora oggi assolutamente attuale. Anzi, nell’epoca di una disintermediazione social che spesso fa rima con disinformazione, territorio pericolosamente borderline con il fake, la riflessione sull’uso della fotografia a fini di propaganda – o di “lotta politica”, secondo il linguaggio di IF – è più che mai necessaria. Se quell’appello finale sulla fotografia come arma da imparare ad usare dà per scontato che più che essere oggetto di interpretazione la realtà in fotografia è vittima dell’ambiguità della sua capacità testimoniale, ciò di cui c’è assoluto bisogno, oggi come allora, è la consapevolezza. Gli smartphone, come sappiamo, hanno avvicinato alla fotografia schiere di nuovi praticanti, e tutto ciò che abbiamo saputo fare in questi anni è stato gridare alla calata dei barbari in fotografia, cincischiando sull’insostenibile leggerezza del selfie senza assumerci la responsabilità di un’alfabetizzazione che iniziasse proprio dagli usi e dalle funzioni, visto che ancor prima che produttori siamo fruitori, spesso in balia delle immagini. Forse allora è arrivato il momento che insieme ai corsi base nei nostri circoli si organizzino serate pubbliche di lettura delle immagini per cittadini indifesi: a quarant’anni di distanza da quell’editoriale il mio conterroneo Cetto Laqualunque direbbe che ancora oggi ciò di cui c’è bisogno è “ccchiù consapevolezza ppi tutti!”.

Attilio Lauria

PS1. per il santommaso che è in voi, ecco la teoria del magico potere del riordino diventata pure una serie di Netflix

https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/unlibroalgiorno/2015/08/26/marie-kondo-magico-potere-del-riordino_69eac8eb-74a3-4d0d-b93a-35d276daf691.html

https://www.netflix.com/it/title/80209379

PS2.“La rivista è pubblicata e distribuita dal Centro Nuova Espressione Fotografica di Palermo, in collaborazione con la casa editrice Ila Palma. Il centro NEF, sorto nel 1976 a Palermo, è una piccola struttura che si impegna per un utilizzo sociale e politico della fotografia.”

 

 

 

 

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