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Il potere di rubare l’anima

L’eterno ritorno della fascinazione: ecco un altro film che accenna a quell’attrazione che la fotografia esercita per ciò che di essa appare oscuro e inafferrabile, “Dove la terra trema” di Wash Westmoreland, tratto dall’omonimo romanzo di Susanna Jones.

(richiesto volume a palla)

Lucy: “Una volta ho letto che quando gli occidentali sono arrivati qui nel XIX secolo volevano fotografare le persone del posto, ma loro non volevano. Pensavano che rubassero l’anima.”

Teiji: “Lo capisco. Il soggetto dà sempre qualcosa, una parte di se, al fotografo. Se ogni volta che facessi una foto prendessi un pezzo della tua anima… me lo lasceresti fare lo stesso?”

Detta così, svuotata cioè della dimensione animista, e al netto del dialogo piacione da fotografia a uso seduzione, la foto che ruba l’anima suona in maniera razionalmente più accettabile: diventa una versione remix di un altro must delle credenze fotografiche, la relazione fra ritratto, sguardo e anima. Se lo sguardo  può essere considerato la finestra dell’anima, il luogo in cui si concentra l’identità di un individuo, come scrive Kundera ne “L’identità”, fare un ritratto equivarrebbe allora a rappresentare, a “tirare fuori” l’anima di una persona. In qualche modo ad impossessarsene, imprigionandola nello spazio di una fotografia…

Attilio Lauria

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