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CAMMINARE PER VEDERE: IL MONDO SECONDO VAGABOOTS

Intervista ad Antonio di Vico

  1. Antonio, chi è Vagaboots oggi, e chi era prima di diventarlo?
    Sono Antonio di Vico, classe 1981, casertano di nascita. Per vent’anni ho lavorato nella comunicazione per organizzazioni umanitarie tra Europa e Asia. Nel 2023, in un momento di crisi personale, ho riscoperto un sogno rimasto in sospeso: camminare in India e raccontarla con la fotocamera. Così è nato Vagaboots, viandante alla ricerca di autenticità attraverso passi lenti, scrittura e immagini. In due anni ho percorso oltre 2.600 km a piedi, un’esperienza che mi ha trasformato e che racconto nel libro Tutta la polvere dell’India, in uscita a novembre.
  2. In che momento hai capito che la tua fotografia aveva bisogno di cambiare?
    Quando non mi emozionavo più guardando i miei scatti. Ero arrivato a immagini corrette, ma senza anima. Le vecchie risposte non mi bastavano più: servivano nuove domande.
  3. Il viaggio a piedi in India ha cambiato il tuo sguardo fotografico?
    Non ero più solo un fotografo, ma un camminante. La vulnerabilità del viaggio: chiedere acqua, ospitalità, sopravvivere grazie alla generosità altrui, mi ha insegnato che non cercavo l’immagine perfetta, ma un incontro autentico. Molte foto non le ho “scattate”, le ho “ricevute”: erano un dono di fiducia da parte delle persone che incontravo.
  4. Camminare è stato per te anche un percorso interiore. Cosa hai trovato lungo la strada?
    Non un’illuminazione, come ingenuamente credevo, ma molte domande nuove. La fatica e la solitudine mi hanno insegnato a riconoscere le mie ombre, mentre gli imprevisti sono diventati parte del cammino, non ostacoli. Soprattutto, ho scoperto l’umanità negli incontri: un sorriso, un bicchiere d’acqua, un pavimento su cui dormire. Più che risposte, ho trovato un ritorno a una forma essenziale di umanità.
  5. Come cambia lo sguardo a piedi rispetto a viaggiare in macchina?
    A piedi sei lento, e questa lentezza ti costringe a vedere ciò che altrimenti scivolerebbe via: case vuote, profumi, rumori dei passi. Le distanze diventano giorni, non minuti. Non sei più un turista che attraversa, ma qualcuno che condivide la stessa polvere, il sole e il cibo. Questo cambia anche lo sguardo delle persone verso di te: diventa più diretto, più intimo.
  6. Come scegli il momento dello scatto?
    Cerco di capire se c’è spazio per me, se il momento mi accoglie. Non rincorro mai con aggressività l’immagine: lascio che emerga da sola. Molte volte non fotografo affatto, per rispetto o per vivere l’attimo. Scattare, per me, è sempre un atto di delicatezza.
  7. Il tuo stile visivo è riconoscibile: luce naturale, toni delicati. È una scelta o un istinto?
    È nato dall’istinto: camminando avevo solo la luce disponibile, spesso dura o lattiginosa. Poi mi sono accorto che rispecchiava anche la mia ricerca interiore: intimità, silenzio, delicatezza. La fotografia ha semplicemente riflesso questo bisogno.
  8. Come costruisci un rapporto con chi fotografi, anche in pochi secondi?
    A volte sono nate amicizie durature, altre volte è stato uno scambio rapido: un sorriso, un gesto. Essere un viandante coperto di polvere, più che un “fotografo estraneo”, mi avvicinava alle persone. La trasparenza, non nascondere intenzioni né presenza, era la chiave.
  9. Cosa significa per te fotografare con rispetto?
    Significa ricordarmi che davanti alla macchina non c’è mai solo un’immagine, ma una persona con dignità e una storia che non mi appartiene. Evito di spettacolarizzare la povertà o la fragilità. Preferisco restituire umanità e complessità, anche in un gesto semplice.
  10. Quali fotografi senti vicini al tuo modo di vedere?
    Mi ispiro molto a Jonathan Jasberg, che considero tra i più grandi street photographer di oggi. Ma la mia formazione è passata dai maestri: McCurry, Frank, Koudelka, Salgado, Pellegrin, Webb. Non li sento “vicini”, ma la loro grandezza mi ricorda ogni giorno fin dove la fotografia può arrivare.
  11. Come vivi il confine tra fotografia sociale e personale?
    Le mie immagini possono toccare temi sociali, ma non nascono con quel fine. Parlano più delle persone che incontro, e inevitabilmente di me stesso, che di questioni collettive. Ho provato il reportage sociale in passato, ma non era il mio linguaggio.
  12. Cosa cerchi oggi con la macchina fotografica?
    Sempre la stessa cosa: raccontare storie, emozionandomi. Ora cerco di farlo in modo più stratificato, con il layering: più livelli narrativi in una sola immagine. Per questo uso quasi solo un 28 mm, a volte un 35 mm, che mi permettono di costruire scene più complesse.
  13. Hai nuovi progetti o cammini in vista?
    Sto viaggiando tra Vietnam e Giappone, due mondi opposti che mi stanno offrendo nuove prospettive. Poi ci sono gli ultimi 850 km in India: prima o poi li completerò, perché lì è nata la mia ricerca legata al cammino e sento che il cerchio debba chiudersi.
  14. Che consiglio daresti a chi vuole fotografare con più profondità?
    La fotografia è un processo, non una corsa al risultato o ai like. Ogni scatto riflette tanto ciò che abbiamo davanti quanto ciò che siamo. Se provi empatia, quella emozione arriverà anche all’osservatore. Non tutto va fotografato: a volte il ricordo ha più valore della foto.
  15. Hai un mantra che ti accompagna?
    “Sii dove devi essere”. Per anni ho inseguito l’idea che la foto migliore fosse altrove. Ora so che le immagini giuste arrivano ovunque, se sappiamo vedere.
    Ringrazio Carmine De Paola per l’intervista

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