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PHOTOVOICE – di Massimo Santinello

PHOTOVOICE

Le immagini fotografiche possono contribuire a cambiare la società? di Massimo Santinello

 

La risposta può sembrare scontata e banale: quante foto in passato sono diventate delle icone, dei simboli in grado di orientare l’opinione pubblica. Dalla fotografia sociale (basti pensare ad Hine agli inizi del ‘900) al fotogiornalismo, molti professionisti dell’immagine (fotografi ed editor) hanno usato le foto come strumenti di denuncia sociale.

Ma l’avvento del digitale, dei social network e di internet, oltre ad aver stravolto la vita quotidiana di tutti, ha modificato radicalmente anche il modo con cui si usano le immagini e il ruolo di chi scatta le foto.

Per esempio, il blog “fotocrazia” di Smargiassi riporta questa dichiarazione dell’Agenzia A.P. :

“La pubblicazione di immagini realizzate da fotografi spontanei è la tendenza del futuro….

Suscitando qualche sorpresa, è un’agenzia di stampa a scriverlo, e anche una delle più potenti: l’Associated Press.”

Da strumento riservato a pochi professionisti, nel giro di non molti anni si è arrivati al “citizen photojournalism” di Hubbard, che qualcuno definisce la via “democratica” al fotogiornalismo. In altre parole, chiunque, usando le immagini ora facilmente realizzabili con molti strumenti, può avere un ruolo da protagonista nel flusso comunicativo dei media; non solo, ma con le foto può contribuire ad attivare processi sociali, proteste, influenzare la percezione pubblica di alcuni eventi.

 

 In questo filone si inserisce il volume edito da Franco Angeli, “Photovoice. Dallo scatto fotografico all’azione sociale”.

“Photovoice” è una tecnica, sviluppata negli anni ’90 da Wang, una ricercatrice statunitense, che si avvale delle immagini fotografiche per raggiungere tre scopi principali:

a) individuare i bisogni di una comunità;

b) rendere protagonisti attivi i membri di quella comunità;

c) attivare dei cambiamenti influenzando, attraverso le immagini, politici e amministratori locali.

Negli anni, si è rivelata un metodo efficace per analizzare esperienze di vita quotidiana, sviluppare empowerment e dare voce a soggetti emarginati. Attraverso una combinazione di fotografia e discussioni di gruppo Photovoice consente di attivare i membri della comunità, accompagnandoli nell’identificare i loro punti di vista e utilizzarli come leve per promuovere il cambiamento sociale.

Il volume, dopo un capitolo iniziale che illustra brevemente i diversi usi che la psicologia ha fatto della fotografia, fornisce le basi teoriche e le indicazioni operative per utilizzare questo strumento sia in ambito accademico (all’interno della ricerca qualitativa), sia per un professionista interessato ad attivare progetti psico-sociali.

Nella parte finale sono presentate tre esperienze realizzate dagli autori e corredate dalle foto prodotte dai partecipanti.

In particolare un progetto ha riguardato le condizioni di vita degli studenti universitari, un secondo il punto di vista di adolescenti sui rischi legati all’abuso di sostanze psicotrope e un terzo realizzato da ragazzi di diverse etnie per favorirne l’integrazione sociale.

Attraverso Photovoice il linguaggio dell’immagine viene coniugato con quello testuale dando luogo ad una originale e innovativa metodologia di ricerca. Ma non deve essere considerato un “laboratorio” o un work-shop di fotografia, all’interno del quale apprendere tecniche fotografiche: lo scopo principale di Photovoice non è produrre immagini piacevoli, originali, di impatto, o favorire l’espressione individuale attraverso le immagini. Photovoice si pone l’obiettivo ambizioso di attivare processi di cambiamento sociale nei quali le immagini diventano i catalizzatori. Le macchine fotografiche sono nelle mani dei cittadini e le immagini diventano la loro voce; i cittadini diventano più consapevoli della loro situazione e dei fattori che concorrono a determinarla: le immagini diventano lo strumento nelle loro mani per rendere anche i politici consapevoli della situazione e stimolarli a produrre nuove azioni.

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7 commenti

  1. “Photovoice” è un libro edito dalla Franco Angeli e realizzato oltre che da Massimo Santinello da Pamela Mastrilli (Psicologa) e Roberta Nicosia (Psicologa). Massimo Santinello, che ha preparato il Post su mia richiesta, è professore ordinario di Psicologia di comunità presso l’Università di Padova, dove dirige il laboratorio per la ricerca e l’azione con la comunità. I suoi interessi di ricerca prevalenti sono l’assessment di comunità, la progettazione e la valutazione di progetti di prevenzione e di promozione del benessere. Ha pubblicato numerosi volumi e articoli in riviste nazionali e internazionali.
    E’ grazie all’invito di Gustavo Millozzi che Massimo Santinello mi ha inviato il libro “Photovoice”, e subito io gli ho chiesto di preparare una presentazione per la nostra community di Agorà Di Cult. Mi fa immenso piacere potere dare visibilità a una ricerca che nasce dal sapere delle Università Italiane, in questo caso quella di Padova.
    Il fenomeno studiato è noto nell’ambito del fotogiornalismo e tanto esteso da far scomparire le Agenzie fotografiche. Grazia Neri analizzò questo inarrestabile nuovo processo di realizzazione delle immagini fotogiornalistiche diversi anni fa, per chi vuol approfondire c’è il suo splendido libro “La mia fotografia”.
    La tecnologia ha permesso ai protagonisti degli eventi di essere anche coloro che li mostrano attraverso i media con le immagini tecniche dei telefoni cellulari.
    Sta nascendo insieme a questa democrazia della visione anche un linguaggio fotografico dove “l’inconscio tecnologico”, teorizzato negli anni ’70 da Franco Vaccari, ha inevitabilmente un importante ruolo.
    Penso che oltre alla tecnologia stiamo anche constatando quanto i mass media hanno insegnato alle popolazioni del mondo nel costruire la rappresentazione visiva degli avvenimenti. Ma le immagini sono sempre “solo” immagini e ci parlano con la loro grammatica che per essere in grado di comunicare chiede di evidenziare chiaramente nella composizione: un soggetto e l’azione da lui compiuta in un determinato contesto.
    Si fa sempre più grande il bisogno, da parte di ogni persona appassionata o no di fotografia, di sapere comunicare con immagini e per una Federazione come la FIAF è una grande opportunità alla quale non si è sottratta con i grandi progetti nazionali come ad esempio “Passione Italia”, e sicuramente saprà proporre nuove stimolanti occasioni di produzione collettiva di buona fotografia.

    1. Nell’800 Baudelaire scriveva: “E’ impossibile scorrere qualsiasi giornale (…) senza trovarci ad ogni riga i segni della più spaventosa perversità umana. Ogni giornale, dalla prima all’ultima riga, non è altro che un tessuto d’orrori”
      Se Bob Capa, con le sue intense e drammatiche immagini di guerra, e Sebastiao Salgado, con le sue incredibili immagini di miseria e degrado sociale, non sono riusciti a cambiare il mondo, come possono farlo quelle di persone meno dotate?
      Se ogni giorno i telegiornali sfornano sulle nostre mense, tra un piatto e l’altro, nella più completa indifferenza ed assuefazione, immagini atroci di sofferenza e morte, come possono riuscirci dei fotoamatori?
      Il nostro reportage servirà almeno ai posteri per comprendere la nostra frigida società della “comunicazione”?
      O, come è successo per le spaventose immagini dei lager, da qualcuno saranno ritenute anch’esse solo un prodotto del cinema di Bollywood ?

  2. La fotografia è e sarà sempre un grande mezzo di divulgazione sociale e sicuramente anche le foto di neofiti o di fotoamatori possono svolgere un ruolo in tal senso; che poi i politici o gli amministratori pubblici possano essere condizionati nelle loro decisioni dalla visione delle immagini di una fotocomunity , beh su questo ho qualche dubbio in più. Solo alcune immagini e lo dice la storia, hanno contribuito a portare alla luce e rendere socialmente coinvolgenti determinati eventi e tutte queste immagini furono scattate da grandi fotografi, capaci grazie alla loro abilità e sensibilità di dare uno “shock” emotivo.
    Sicuramente il progetto Photovoice è interessante, ma a mio parere va ridimensionato in quanto ad impatto sociale.

  3. Ringrazio per i commenti il direttore, Omero, Antonio e Massimo. Concordo con le osservazioni che sono state fatte, soprattutto sulla grammatica e sul dare la giusta dimensione al Photovoice. Come apparirà più chiaro a chi avrà la pazienza di scorrere il libro, i cambiamenti ai quali si tende non sono quelli delle “grandi” foto, ma sono i miglioramenti possibili in un paese, in un quartiere, in una scuola…. quelli che cambiano la vita di poche persone, nessuna rivoluzione…ma a volte, per quel gruppo, anche grazie alle immagini che hanno prodotto o, soprattutto grazie alle immagini, e al loro impatto sui politici, amministratori, dirigenti, si è riusciti a cambiare qualcosa…e di questi tempi ci si può accontentare.

  4. A mio avviso si tratta di un lavoro di “fototerapia” con l’intendimento di diventare anche un lavoro di “fotodenuncia”.
    In effetti, anche se il politico o l’amministratore locale sono spesso poco attenti al sociale, i lavori proposti con Photovoice sono denuncia e proposta che lasciano il segno.
    Quindi non ci si deve solo accontentare ma si deve proseguire.

    1. Concordo con il fatto che questa tendenza è al confine con la Fototerapia (di Judy Weiser). Come psicologo-psicoterapeuta utilizzo spesso tecniche di “immagini” nei colloqui famigliari e, con piacere, anche con i ragazzi (oggi molto più attenti verso uno stimolo fotografico che il tratto a matita fosco e cupo di un qualsiasi test…). La forza di queste tecniche risiede nella forza delle immagini: la loro capacità di essere polisemiche e di utilizzare un linguaggio “altro” da quello che ci insegnano a scuola.

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