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La Famiglia in Italia – Elaborazione del Concept_02 – Il Grandangolo, Carpi (MO)

 
 
 
 
 
 

“La Famiglia in Italia”

Elaborazione del Concept_02
Il Grandangolo, Carpi (MO)

 

Si fa presto a dire famiglia

a cura di: Danilo Baraldi, Gabriele Bartoli, Valeria Cremaschi, Renza Grossi

 
Ogni famiglia ha un segreto, e il segreto è che non è come le altre famiglie.

(Alan Bennett)

 
Per parlare di famiglia, e per poter comprendere struttura, meccanismi, significati e caratteristiche, siamo partiti, come spesso accade, dal ricercarne una definizione nel dizionario. La famiglia è cosi definita: comunità umana, diversamente caratterizzata nelle varie situazioni storiche e geografiche, ma in genere formata da persone legate fra loro da un rapporto di convivenza, di parentela, di affinità, che costituisce l’elemento fondamentale di ogni società, essendo essa finalizzata, nei suoi processi e nelle sue relazioni, alla perpetuazione della specie mediante la riproduzione.
 
Ed è così che abbiamo iniziato il nostro viaggio all’interno de “LA FAMIGLIA IN ITALIA”, ponendoci domande alle quali dare risposte ispiratrici: cos’è la famiglia? Cos’è la famiglia in Italia oggi?
Ognuno di noi ha cercato di rispondere al quesito guardando alla propria famiglia, ai propri vicini di casa, alle storie che tutti i giorni ci circondano e che aspettano solo di essere raccontate.
La sfera intima, racchiusa nelle proprie mura domestiche è quella che più ci ha affascinato; è quella che meglio conosciamo, o crediamo di conoscere, con la quale ci confrontiamo ogni giorno e cresciamo.
La famiglia è fatta di ricordi, esperienze, sensazioni, rimandi al passato, ma anche di sguardo verso il futuro.
 
Per poter comprendere appieno come poter raccontare questo mondo complesso di affetti e relazioni attraverso la fotografia, abbiamo pensato anche quest’anno di confrontarci con tre autori che in distinti momenti di incontro ci hanno raccontato il loro lavoro e le loro esperienze personali.

ENRICO GENOVESI, per primo, ci ha mostrato con i suoi racconti fotografici percorsi diversi di indagine e vite intrecciate con la comunità. Un occhio molto attento alle fragilità quello di Enrico, che per i suoi progetti sceglie sempre delle tematiche molto forti, intense, molto attuali, nei quali mette in moto certe pensieri e riflessioni. Con i suoi racconti ci ha proiettato in direzioni diverse, verso la difficoltà di vivere avulsi dall’idea di casa e famiglia ma anche verso la ricerca di forza e coesione nelle relazioni tra le persone appartenenti ad una comunità.
Enrico Genovesi racconta di una famiglia italiana sempre più minata dalla crisi sociale e economica che sta attraversando questo periodo storico.  Ci sono più famiglie che si sciolgono di che quelle che nascono, famiglie che non fanno più figli, famiglie con genitori separati, la famiglia “tradizionale” come l’abbiamo immaginata sino ad ora sta subendo una drastica trasformazione dovuta all’evoluzione della nostra società.
Aumentano le famiglie monopersonali, le famiglie composte da persone dello stesso sesso, le famiglie composte da stranieri; queste “nuove” tipologie di famiglie fanno pensare ad una domanda: esiste una famiglia “normale”?  In base alla risposta che ognuno può dare si pone un’altra domanda: esiste allora una famiglia “non normale”, esiste una famiglia “artificiale”? Forse, semplicemente, esiste la famiglia, con tutte le difficoltà del nostro tempo, la famiglia che “nonostante tutto ce la fa”. Ma anche questo non è del tutto vero.
Buona parte delle opere di Genovesi hanno come tema centrale la famiglia, in modo diretto o, talvolta, sotteso. I lavori più significativi presentati sono stati due. Temporary Home, in cui l’autore ha indagato le famiglie che “malgrado tutto non ce l’hanno fatta”, famiglie che, causa la crisi economica, non sono riuscite a pagare gli affitti delle case in cui abitavano e hanno subito lo sfratto, dovendosi così riparare in dimore di fortuna in attesa di un’assegnazione di case popolari.
L’altro lavoro presentato è stato: Nomadelfia, che documenta la comunità grossetana nella quale diverse famiglie vivono in uno stile di vita cristiano. Nomadelfia venne fonata da Don Zeno Saltini nel 1947 ed è composta da persone che aspirano alla costituzione di una nuova civiltà, di una comunità fondata sul Vangelo, in cui tutti i beni materiali sono comuni, in cui non esiste il concetto di proprietà privata e non viene utilizzato il denaro. Le famiglie si uniscono insieme per creare un “gruppo famigliare” e i giovani membri della comunità, una volta raggiunti i 18 anni possono scegliere se restare o lasciare la comunità di Nomadelfia.
Una tipologia di famiglia particolare, un insieme di famiglie che condividono queste regole in armonia, abbiamo scoperto le madri per vocazione, donne nubili e sposate con propri figli che diventano mamme adottive di bimbi che vengono loro assegnati in affido e a cui volgono tutto il loro amore materno. Tante sono le cose originali che abbiamo conosciuto, il momento collettivo dei pasti, l’istruzione scolastica all’interno della comunità, le coltivazioni in comune, i lavori collettivi,  tutto ciò fa di questa comunità una sorta di unica famiglia.


Diverso l’approccio al racconto fotografico utilizzato da PAOLA FIORINI : in tutti i suoi lavori emerge con molta forza il proprio dramma personale. Nelle sue storie, nelle sue immagini, si sente il desiderio insopprimibile di conoscenza, della necessità di scavare nel profondo delle storie, delle vite che le si mostrano davanti. La sua è una fotografia ben pensata e non compulsiva, molto intima e talvolta racchiusa in un’atmosfera onirica, sofisticata, che raggiunge nel profondo il proprio interlocutore.
In particolare due sono i lavori che chiariscono perfettamente il senso della famiglia, il primo Love Camping. Apologia dello stanziale, racconta attraverso dei dittici, il ripetersi negli anni, nei decenni, la tradizione della stanzialità estiva, della vacanza al lago, dove le famiglie tornano sempre nella stessa piazzuola per ritrovare gli identici vicini di camper degli anni passati. Le vite di queste famiglie si intrecciano le une alle altre, si guardano i figli crescere e divenire adulti, si condividono i pasti e i momenti di relax, ci si sente liberi di essere buffi, ridicoli, divertenti, sereni, felici. Privi insomma di tutte quelle sovrastrutture sociali che ci permeano nella vita quotidiana. Nella vita reale. Eppure alche qui, sulla sponda dell’acqua, sui tavolini e nei portici estivi delle roulotte si ricostruisce un nuovo modello di comunità, che forse solo le nuove dinamiche di viaggio stanno trasformando.  Oggi si può andare ovunque, con velocità ed in modo economico, il viaggio non è più stanziale ma dinamico, e significativa è l’ultima fotografia del lavoro di Paola Fiorini, in cui una giovane coppia con figli è fotografata accanto alla roulotte su cui domina il cartello “vendesi”. Un sogno che va svanendo.
Il lavoro DoUTdes ha invece un sapore più intimo e personale. Nato come progetto fotografico realizzato all’interno di un lavoro condiviso con il Collettivo Synaps(see), ha apparentemente come soggetto il fascino e la magia del Golfo di Baratti. Solo in apparenza. Perché ciò che Paola Fiorini ci mostra è il legame profondo con la figlia, che appare come una fata, od una ninfa dei boschi, delicata come una poesia. Paola racconta dell’amore per la figlia e della ferita, profonda, che porta con se nell’anima; lei adottata da bambina e costretta dalla legge italiana a poter accedere ai documenti in cui è dichiarata l’identità di sua madre solo al compimento del centesimo anno di età. Lei che si definisce una cornice vuota. Lei che con DoUTdes fa alla figlia e a se stessa la promessa di lottare per poter un giorno riempire quella cornice con una immagine.

Un ritorno, invece, alla cultura primordiale e ad una condizione di vita famigliare primitiva è quello descritto dal progetto di ROMINA REMIGIO, dove l’archetipo è alla base di tutto. Un tipo di approccio fotografico quello di Romina che si spinge oltre i propri confini sia esteriori che interiori. La sua percezione si forma ogni giorno poiché circondata da queste realtà, nelle quali Romina vive. Le sue immagini sono intrise di questo vissuto, si sono trasformate in veri e propri racconti visivi delle persone che ha conosciuto e che fanno parte della sua “nuova famiglia”.
 
Ci sono luoghi che risultano sconosciuti al mondo, e con essi le persone che li popolano.
Ed ecco allora che l’Occidente, che crede ormai di avere cognizione di tutta l’umanità che abita il pianeta, viene fortunatamente smentito. Romina Remigio, fotoreporter abruzzese, ha svelato l’esistenza di una tribù senza nome che vive all’interno di una foresta della Tanzania, a 2200 metri di altitudine.
I volti delle persone immortalati nelle fotografie in bianco e nero del suo lavoro Tribe no name colpiscono da subito per la profondità dei loro sguardi, dietro cui si nasconde il dolore della malattia che li affligge: una rarissima forma di epilessia. Per questo motivo, ritenuti dalle credenze popolari delle tribù delle regioni vicine, posseduti dal demonio, vengono via via scacciati o uccisi appena si allontanano dalle loro montagne.
Romina Remigio rimane con loro, vive con loro, mangia con loro per settimane, mesi, anni, rischiando malattie e solitudine, difficoltà materiali e catastrofi naturali, tutto per poter raccontare, testimoniare, queste difficoltà di un popolo che potrebbe essere salvato da farmaci anti epilettici comuni in occidente. In queste condizioni di vita estreme l’aspetto che viene posto in evidenza è quello famigliare, diametralmente opposto al nostro, consumistico e ormai privo di quei valori essenziali del vivere in armonia. Costretti a vivere soli, privi di dimensione temporale, il tempo viene coniugato unicamente al presente per le attività materiali del quotidiano, le tradizioni e le tecniche di coltivazione vengono tramandate oralmente dagli anziani.  Romina ci racconta come il tempo venga ricevuto come un “dono” in quanto non essendoci prospettive future (già il domani viene considerato futuro) le persone si donano completamente “ora, adesso”. Non si rimanda a un “dopo” qualsiasi attività, nemmeno un incontro o una chiacchierata; ogni gesto, ogni rito è sacro e per questo è interpretato dal guaritore o dal santone.
La Solidarietà gratuita nella più ampia accezione materiale e morale è la prima regola del villaggio, il tutto, o il niente, viene condiviso tra le famiglie, tutti si adoperano per raccogliere i pochi frutti di un’economia essenzialmente agricola che può essere spazzata via ad ogni pioggia troppo intensa. La nascita, come la morte è un momento molto importante nella vita del villaggio, tutti devono partecipare. E’ un rito tribale fondamentale nella vita del villaggio.
Nessuno viene abbandonato o lasciato indietro nei momenti di difficoltà della vita o della malattia, che può portare alla morte, ogni persona è indispensabile per il villaggio, quindi un lutto è una grave perdita per tutto il villaggio. Nell’incognita del futuro si ricomincia, da capo, ogni giorno.
La vita scorre all’interno di ogni famiglia in un misto di fatalismo e fede che forse si può tradurre in qualcosa che significa speranza.
A completamento del percorso iniziato con le conferenze di questi tre eccezionali fotografi, abbiamo immaginato di costruire due incontri in cui in tema della famiglia potesse essere approfondito attraverso delle differenti discipline artistiche: cinema, pittura, letteratura e naturalmente fotografia. Ne è nata una occasione importante per confrontarci con linguaggi che talvolta arricchiscono, talvolta completano, la nostra ricerca. Un breve esempio di questo percorso di confronto lo si può ritrovare nella lettura di quattro opere differenti:

Diego Velasquez dipinge il celebre quadro Las Meninas nel 1656, quando l’artista spagnolo ricopriva il ruolo di pittore di corte presso i sovrani iberici, Filippo IV e la seconda moglie Marianna d’Austria. Il soggetto del dipinto e l’infanta Margherita posta al centro della tela, mentre Velasquez si autoritrae mostrandosi all’opera di fonte a noi. Il dipinto è un gioco di rimandi, in cui i legami familiari vengono accennati e rappresentati con intelligenza e creatività. I due sovrani solo apparentemente non presenziano al momento del dipinto, ma scrutando ben il fondo della sala ci si rende ben presto conto che nel riflesso dello specchio sulla parete opposta al pittore ci sono proprio Filippo IV e Marianna. Attraverso questo escamotage Velaquez crea una illusione visiva e percettiva poiché nell’organizzazione spaziale da lui pensata il re e la regina si troverebbero proprio accanto a noi spettatori, che idealmente schierati vicino a loro possiamo osservare ciò che accade davanti ai nostri occhi, con la piccola Margarita circondata dalle dame e dalla nana di corte  (la cui funzione all’interno del dipinto era probabilmente quella di far apparire più slanciata e avvenente l’infanta).
 

Anche nel film di Wes Anderson, Moonrise Kingdom, del 2012 i protagonisti sono ragazzini. Nell’estate del 1956 su di una isola del New England la dodicenne Susy, incompresa dai genitori si innamora di un coetaneo, Sam che si trova nelle vicinanze in un campeggio scout. Due ragazzi incompresi dalle loro famiglie, due anime creative, ironiche e poetiche che si incontrano e decidono di fuggire insieme. E cosi tutti gli adulti dell’isola si mettono alla loro ricerca. Straordinario è l’inizio del film che si apre con la macchina da presa che si muove, nel tipico stile, rigoroso e geometrico, di Anderson, indagando nelle stanze della casa di Susy, dominate da genitori passivi e da bambini vitali e curiosi, che proprio sui titoli di testa ascoltano su di un vinile la suite didattica “Young Person’s Guide to the Orchestra” di Benjamin Britten, una registrazione molto conosciuta alla fine degli anni cinquanta in cui si presentavano i diversi strumenti che compongono l’orchestra, che poi culminava in un ensemble riunito per eseguire una fuga. Ed è proprio una fuga  ciò che Suzy e Sam mettono in pratica, scelgono di fuggire, non per perdersi ma per potersi ritrovare l’uno nell’altro.

Julie Blackmon, fotografa americana, nel 2008 realizza un lavoro fotografico intitolato Domestic Vacation. La Blackmon parte da un presupposto, ovvero un modo di dire olandese “una casa di Jan Steen” che si riferisce a quelle abitazioni che, piene di bambini vivaci e chiassosi, si trovano ad essere sempre sottosopra. Erano infatti proprio questi i soggetti preferiti del pittore Stenn e di molti artisti fiamminghi e olandesi del XVII secolo. In cui viene ritratta la confusione tra arte quella stessa confusione rappresentata dalla Blackmon, sorella di nove fratelli e madre di tre figli, e che caratterizza i momenti comuni e la vita quotidiana della sua caotica famiglia. Le sue fotografie sono accuratamente costruite utilizzando una costruzione spaziale quasi rinascimentale, in cui i bambini dominano la scenda prendendo il sopravvento sugli adulti, assenti od appena percepiti, ma incapaci di confrontarsi con la loro differenzi identità di genitori, artisti, figli, fratelli, persone.

Nel 1985 esce il primo romanzo di Daniel Pennac che ha come protagonista Benjamin Malaussene, di lavoro capro espiatorio in un grande magazzino. Il Paradiso degli orchi diviene presto un libro di grande successo e il pubblico fa presto la conoscenza della curiosa e variopinta famiglia Malaussene, un aggregato di piccole anime, figlie della stessa madre ma di padri sempre diversi. Ogni fratello di Benjamin ha qualcosa che lo rende speciale, Therese spilungona e seria con doti di preveggenza, Jeremy piccolo teppistello che ha il diritto acquisito di dare i nomi (spesso sssurdi) ai fratelli appena nati, Verdun neonata terribile che viene chiamata col nome del luogo di una famosa battaglia della prima guerra mondiale. Ma tra tutti forse una delle figure più belle è Clara la più saggia delle sorelle di Benjamin, la più riservata, colei che affronta le brutture del mondo attraverso un filtro straordinario he è l’obiettivo della macchina fotografica. Le emozioni, quelle potenti che ti travolgono e ti sconvolgono possono essere contenute, metabolizzate e razionalizzate, se le trasformi nella stampa di una fotografia.

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Un commento

  1. Questo post pubblica in forma estesa i contenuti dell’intervento che gli amici del Grandangolo di Carpi hanno compiuto al PhotoHappening- Set & Simposio di Sestri Levante del 17 e 18 marzo 2018 da Danilo Baraldi, Gabriele Batoli e Renza Grossi.
    Questo è il Concept 02 di elaborazione tematica del tema “La famiglia in Italia” che è in fase di conclusione nel LAB Di Cult FIAF.
    Complimenti agli Animatori Culturali i Tutor Fotografici e i Praticanti de “Il Grandangolo” per la brillante ricerca!

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