Paragoni possibili_03 – IPERCONNESSIONE_2: La solitudine collettiva – di Gabriele Bartoli
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Iperconnessione_2: La solitudine collettiva
Paragoni possibili_03
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La citazione di Godfried Bogaard: “In passato eri quello che possedevi. Adesso sei quello che pubblichi sui social” sembra acquisire ogni giorno più forza. Come già affermato nel percedente post, secondo alcuni il web 2.0 incoraggia lo sviluppo della cultura narcisistica attraverso l’esibizione di identità digitali seducenti e molto spesso fittizie. “L’uomo non è più concentrato sul costruirsi per com’è davvero, ma per convincere gli altri a credere chi finge di essere.” (Cantelmi, 2013). L’iperconnessione caratterizzante il “narcisismo digitale” ha portato alla nascita di nuovi “disturbi” in qualche maniera legati ad esso, ma non ancora ufficialmente riconosciuti . Tra queste “patologie”, se proprio così le vogliamo chiamare, le più note sono F.O.M.O (Fear Of Missing Out) e Nomofobia.
L’acronimo F.O.M.O, dall’inglese “Fear of missing out” ovvero “Paura di essere tagliati fuori” è quella sensazione di agitazione, pentimento e invidia che, precisa Turkle (2012), “crea un turbinio emozionale e un risentimento verso noi stessi o gli altri, insoddisfazione, ansia e sentimento di incapacità quando ci rendiamo conto di non essere come e dove vorremmo.”
La paura di perdersi qualcosa di interessante costringe i “malati” di F.O.M.O a stare costantemente collegati allo smartphone controllando i loro account Facebook, Instagram o gli aggiornamenti degli stati dei propri contatti presenti su Whatsapp. Chi è “afflitto” da F.O.M.O cade in un circolo vizioso senza rendersene conto: egli cerca di riempire la solitudine che prova attraverso i social che solo apparentemente gli danno compagnia, facendolo cadere invece in un senso di solitudine ancora maggiore che cerca di colmare sempre attraverso i social.
La Nomofobia è ancora scarsamente indagata e ancora troppo poco definita. La comparsa di questo nuovo vocabolo risale per la prima volta in Gran Bretagna, la cui etimologia deriva dalla contrazione di “no-mobilephobia”, è un neologismo che si riferisce all’eccessiva paura/terrore di rimanere senza telefono o senza connessione ad internet o al 4G.; in occasione di un sondaggio organizzato da un organismo di ricerca, era emerso che oltre la metà degli utenti di telefonia mobile tendeva a manifestare stati d’ansia quando era a corto di batteria, credito o copertura di segnale. La ricerca evidenziava inoltre che il 60% dei teen ager andavano letteralmente a letto in compagnia del telefono.
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DISCONNECTING CONNECTION
di AL LAPKOVSKY
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L’eccellente lavoro di post produzione ha reso il progetto DISCONNETING CONNECTION del fotografo lettone Al Lapkovsky un’opera decisamente creativa e chiaramente leggibile. Le scene ricreate nella quiete domestica concretizzano scene di ordinaria quotidianità in cui i soggetti protagonisti, che siano famiglie, adulti, o ancor peggio bambini, sono assolutamente concentrati con i loro smartphone piuttosto che parlare, socializzare o giocare tra di loro.
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Come dice l’autore: “Stiamo scomparendo, cessiamo di esistere, periamo. Non possiamo immaginare le nostre vite senza le schermate blu. Siamo bombardati da notizie, aggiornamenti e stati. Abbiamo migliaia di amici eppure siamo soli. Siamo semi-trasparenti, persi nella luce blu di informazioni inutili e un falso sentimento di appartenenza.”
L’obiettivo principale di questo progetto è di illustrare come continuiamo a disconnetterci dalla realtà che ci circonda e ad impegnarci in qualcosa che forse è reale ma non così importante e rilevante in questo momento; così semplicemente per abitudine scegliamo sempre più spesso di guardare lo schermo invece di guardarci intorno, di scrivere a qualcuno invece di parlare con una persona seduta di fronte a noi; così la nostra mente diventa globale, nel senso che possiamo intrattenere una conversazione con persone che conosciamo a malapena e allo stesso tempo ignorare qualcuno molto vicino e reale.
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Lo sguardo triste della bambina con il suo orsacchiotto che ci guarda mentre tutti gli altri bimbi sono maggiormente attratti dai loro smartphone; una cena romantica, il braccio che mollemente si inclina per un brindisi, la lettura della favola della buonanotte lasciato in gestione ai figli, non accorgersi della seduzione della compagna perché maggiormente attratti dal proprio cellulare.
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Immagini disturbanti, per certi versi sicuramente estreme ma alle quali tranquillamente apparteniamo, appositamente ideate per sottolineare come la fiction mostri ancor meglio della realtà le relazioni social all’interno del nostro privato.
Chi di noi non si riconosce in una o alcune di queste situazioni?
Chi è senza peccato scagli la prima pietra, prego accomodatevi!
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Bibliografia: www.begemfoto.com
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REMOVED
ERIK PICKERSGILL
Il fotografo americano Erick Pickersgill ha fotografato la nostra quotidianità rimuovendo dall’immagine i cellulari e i tablet. «È la narrazione di ciò che rimane, mani vuote ed espressioni spente.Le stesse che probabilmente indossiamo durante l’intera giornata, nonostante chi o cosa abbiamo intorno».
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Osservando le sue fotografie dovrebbe nascere un certo disagio nel vedere individui che stanno insieme eppure sono ciascuno in un mondo a sé. Ma non è neppure detto che ci si accorga di cosa rappresentino gli scatti di Pickersgill; infatti un altro elemento del comportamento indotto dall’uso della tecnologia è la velocità con cui scorriamo le immagini. È capitato dunque che alcune persone osservassero le foto della raccolta Removed così velocemente da non accorgersi dell’assenza degli smartphone e non capissero il senso delle foto.
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Chi invece osserva con cura gli scatti, non può non porsi delle domande quantomeno scomode sulle proprie consuetudini e sulla solitudine tangibile che evidenziano. Gli sguardi divergenti di una coppia appena sposata, è ciò che disturba e fa salire l’amaro in bocca. Se ci fossero i cellulari nelle mani di entrambi, la foto non darebbe affatto fastidio; penseremmo a quello che facciamo sempre, condividere un momento importante proprio mentre lo viviamo. L’assenza dello strumento fa esplodere l’evidenza che la connessione virtuale ci fa risultare totalmente distaccati dal mondo reale.
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Ma il lavoro di Pickersgill è qualcosa più che una semplice provocazione. Per spiegarlo, l’autore ha usato una metafora legata a suo nonno, anche lui fotografo negli anni ’50: “se guardiamo gli scatti di famiglia in bianco e nero di 60 o 70 anni fa, vediamo volti tirati, sorrisi poco spontanei, pose forzate. La gente non era abituata alla macchina fotografica, cioé pur posando per le foto non aveva preso consapevolezza del mezzo e delle possibilità. Oggi siamo nell’era dei selfie, stare davanti a un obiettivo è un gesto di quotidiana routine: sappiamo risultare spontanei, l’obiettivo è una presenza “amica”, cerchiamo le pose più ammiccanti.”
Il tempo ha permesso alle varie generazioni di adattare il comportamento di fronte alla macchina fotografica via via che la consapevolezza del mezzo cresceva. La tecnologia degli smartphone è con noi da più di un decennio circa, sappiamo usarli, ma non tutti sono consapevoli del cambiamento di comportamento che questa tecnologia ci impone. Il nostro atteggiamento è ancora “primitivo”, come quello di chi stava di fronte all’obiettivo 60 anni fa?
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Bibliografia: www.ericpickersgill.com
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LIBERE CONCLUSIONI
Questi due lavori si possono paragonare mettendo in evidenza le tante differenze stilistiche e formali: due modi di operare opposti per mostrare la stessa idea, anche se sicuramente quello di Lapkovsky è molto più avvincente e penetrante nel nostro immaginario. Cosa ci riserverà il futuro non è dato saperlo, con l’approssimarsi della tecnologia 5G certamente si compirà un nuovo salto di prestazioni; l’utilizzo consapevole di questi strumenti non potrà che allargare ulteriormente le nostre possibilità, e questo è un dato sicuramente positivo.
Gabriele Bartoli
Lettore dela Fotografia FIAF
I lavori di Lapkovsky e Pickersgill rendono sotto forma di immagini un problema che si è andato amplificando nel corso degli anni e sul quale credo sia importante riflettere per capire il nostro presente e costruire un quadro del futuro che ci aspetta. La prima riflessione su di esso mi fu suscitata da un episodio che definisco curioso al quale assistetti qualche anno fa in una località di mare della Croazia. Una sera in un piccolo ristorante letteralmente sul mare, in una baia isolata e quasi deserta, con l’acqua completamente ferma che lambiva i tavoli, con la luna piena che soffondeva tutto l’ambiente di una aura romantica e idilliaca. Un ragazzo e una ragazza seduti al tavolo accanto al nostro. Tutti e due impegnati col proprio cellulare. In due ore di permanenza nel locale non si scambiarono una parola, sempre impegnati a digitare. La cosa mi sembrò molto particolare perché avrei immaginato che in una situazione del genere due innamorati avrebbero dovuto tenersi per mano, guardarsi con occhi dolci, scambiarsi anche qualche effusione, stimolati da una situazione ambientale ottimale. Invece niente. Mi chiesi cosa li spingesse a quel comportamento. Mi chiesi di che tipo fosse il loro amore, quanto profondo, quanta fosse la voglia di condividere, se non quelli brutti, almeno i momenti belli della loro esperienza insieme. La loro socialità in quel momento non era centrata sull’altro, non sulla relazione in presenza, ma su qualcosa di virtuale, fisicamente lontano. Quel lontano mancava di tutta quella serie di stimolazioni sensoriali che caratterizzano la relazione in presenza: gli sguardi, le sensazioni tattili, i toni di voce, le posture, i rumori che ci circondano, gli stimoli visivi che ci pervengono dall’ambiente. Mi chiedevo come fosse possibile preferire un qualcosa di socialmente freddo a una relazione calda come quella letteralmente a portata di mano. Sono passati diversi anni da questo episodio e questo tipo di comportamenti si è diffuso notevolmente, tanto da rendere la domanda più pressante e una risposta più necessaria. Alla base sta probabilmente un senso di solitudine che non si placa con la presenza reale di altre persone. Prima dell’avvento dei media tecnologici attuali, di fronte alla sensazione di solitudine la reazione era quella di cercare qualcuno con cui uscire, parlare, fare qualcosa insieme. Oggi questo non basta più. E’ diventato più importante essere sempre al centro di un continuo flusso di relazioni soprattutto virtuali per avere la sensazione di essere considerato, di contare qualcosa, di non essere dimenticato. Rimanere soli fa paura e si cerca di vincere questa paura attraverso l’inserimento in questo flusso di relazioni, che hanno delle caratteristiche che sembrano fatte apposta per chi ha un difficile rapporto con la solitudine e aiutano a superare le difficoltà che una relazione in presenza pone. Dire che siamo di fronte a una vera e propria patologia forse non è lontano dal vero. O meglio credo che i nuovi media abbiano dato sfogo a problematiche interiori che prima dovevano trovare soluzioni diverse e maggiormente improntate al contatto fisico, reale con le altre persone. Oggi il distacco fisico che caratterizza le relazioni tecnologiche offre spesso un riparo sicuro alle proprie insicurezze, al proprio vero io che si ha difficoltà a mostrare pubblicamente e che in una relazione in presenza prima o poi viene fuori. Di questa dimensione di vita irreale e reale allo stesso tempo risentono maggiormente quei bambini che vivono con genitori mediadipendenti e che invece di essere educati a una sana relazione con l’ambiente che ci circonda, con tutto quello che ciò comporta anche in fatto di relazioni sociali, imparano che la vita si svolge dentro l’angusto spazio di uno schermo. Il virtuale si fa reale e il reale, con tutti i suoi pregi e difetti, viene vissuto come qualcosa di non soddisfacente da cui fuggire per trovare riparo in un mondo e in una vita fittizi. La vita reale è fatta di tante cose, di gioie, di dolori, di momenti belli e altri brutti, di piacevolezza, ma anche di dolore e sofferenza, di piaceri, ma anche di doveri e responsabilità. Diventare adulti significa imparare a gestire tutto questo in modo equilibrato e non mi sembra che stare ore e ore davanti a uno schermo contribuisca a sviluppare un giusto equilibrio. E’ difficile dire cosa tutto questo comporterà nel futuro, sicuramente non è possibile tornare indietro e quindi un’educazione ad un uso consapevole e quindi critico degli strumenti tecnologici si impone come una priorità non eludibile.
Gabriele Bartoli con i suoi “Paragoni possibili” ci stimola ad approfondire una fotografia contemporanea animata da una progettualità concettuale, perché le immagini sono realizzate secondo un concept preordinato.
Quando dico concept intendo una determinata modalità iconica nel rappresentare un determinato concetto e il concetto stesso che trova ampia significazione anche nella sequenza delle foto.
In “Disconnecting connection” di Al Lapkovsky siamo di fronte a immagini dove mirabilmente viene mostrata, come in un’opera fantasy, la condizione della presenza fisica e della contemporanea assenza mentale nei momenti della quotidianità. Viene rappresentata con la smaterializzazione dei corpi che diventano trasparenti come fantasmi. Le persone ci appaiono assenti a momenti importanti della loro vita famigliare e di coppia. L’aspetto toccante che le immagini pongono in evidenza è la conseguenza che questa presenza-assenza genera nella qualità della vita di relazione dato che produce la rottura del momento relazionale generando nell’altro delusione, sconforto, solitudine … E’ una vera crisi dei sentimenti e dei desideri condivisi che tengono unite le relazioni umane.
“Removed” di Erik Pickersgill, sembra la prosecuzione di “Disconnecting connection” in quanto le immagini rappresentano momenti di ordinaria vita di relazione dove tutti sono privati della smartphone ma la postura di ognuno è quella che avrebbe se stesse guardando l’apparecchio.
Le immagini sono realizzate in un bianco/nero dal sapore vintage del ‘900, per richiamare il senso di relazione che avvertivamo in quelle foto che sono presenti in ogni famiglia.
Anche in questo progetto il concept prende forma dalla coerenza iconica delle immagini e dal pensiero in esse rappresentato. E’ evidente che il messaggio è quello di dirci che la connessione digitale ci ha trasformati e non possiamo farne a meno. Anche qui appaiono le conseguenze prodotte da questo comportamento: la sparizione della vita comune.
I due autori ci dicono che la vita di relazione non è uno spazio da riempire ma una storia da condividere tra le persone, con tutto il complesso di sentimenti pulsanti nelle vene e la vita famigliare (e sociale) che cresce nel nutrimento reciproco che avviene solo nell’incontro profondo con l’altro.
Il paradossale è che questo comportamento di estraniazione noi lo compiamo pensando che sia innocuo, momentaneo, interrompiamo continuamente la vita di relazione pensando che non la perderemo e invece quel che avviene è il suo svuotamento di senso che conduce all’insoddisfazione, e spesso alla crisi… per noi inspiegabile.
Grazie a Gabriele Bartoli per il post rivelatore.