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Virginia Cassano – La “Messe” è finita

Virginia Cassano – La “Messe” è finita

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Concept:

Quando qualcosa scompare per sempre scatta immediatamente il meccanismo del ricordo per chi ha vissuto tempi ora perduti.
Non sono da meno gli zuccherifici, che anche nel nostro territorio hanno in effetti segnato un’epoca.
Dagli inizi di agosto c’era l’esalazione di odori sgradevoli dovuti alla lavorazione della barbabietola, nessuno faceva caso all’aria appestata perché era odore di lavoro, tutti sapevano cosa era, da dove veniva.
Il lavoro era continuativo sette giorni su sette, per ventiquattrore al giorno, iniziava intorno ai primi di agosto e terminava circa a metà ottobre.
Lo zuccherificio di Granaiolo conobbe il suo massimo sviluppo durante il fascismo arrivando ad impiegare circa 500 operai, ma nel secondo Dopoguerra la fabbrica cominciò ad entrare in una fase di declino.
Il termine “messe” trova la sua traduzione dal tedesco in diversi sostantivi:
fiera industriale, impresa e messa religiosa.
A vederlo lo stabilimento, passando lungo la strada che da Ponte a Elsa conduce a Castelfiorentino, sembra quasi una cattedrale abbandonata, della protoindustrializzazione toscana: lo zuccherificio di Granaiolo è lì abbandonato da molti anni, l’impianto venne chiuso nel 1972, ma il suo fascino rimane intatto.
Costruito agli inizi del Novecento per volontà di alcuni grandi possidenti di Castelfiorentino e della Società  Italiana per l’Industria degli zuccheri di Genova che dette disponibilità ad aprire uno stabilimento in Toscana,
Granaiolo fu progettato da un architetto tedesco sul modello delle grandi industrie nordeuropee.
L’impianto era composto da grandi macchine per il lavaggio e il trattamento delle barbabietole, da imponenti caldaie e da un complesso sistema di tubazioni e di mescolatori per la realizzazione del prodotto finale. La copertura del corpo principale presenta una forte inclinazione ed elementi architettonici che rimandano al gusto neogotico.
Ora in quei luoghi c’è silenzio. Attualmente l’edificio principale resta in stato di completo abbandono, pur essendo stati avanzati molti progetti per il suo recupero e riqualificazione.
Le strutture abbandonate e fatiscenti fanno pensare a ruderi di cattedrali sconsacrate dove di notte tra le erbacce, cavalcano gli spettri dei Templari.
Un nulla che aspira a diventare qualcosa nel prossimo futuro.
E’ da questa idea che nascono le immagini in cui si fondono il passato glorioso dell’attività industriale, e gli ambienti ora fatiscenti. Il presente dell’ambiente circostante è assimilato dai luoghi abbandonati dall’uomo,
una storia quasi invisibile, celata dietro la vegetazione.
Non ci sono altri scopi se non quello di sapere dove si abita. Capire l’ambiente in cui si vive, permette di sapere come agire, come fare dei buoni gesti, come consentire l’emergere di un futuro felice, salvaguardando il proprio territorio naturale.

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Un commento

  1. Due linee d’orizzonte si fondono in un’unica visione in cui tempo cronologico e tempo della coscienza individuale e collettiva si compenetrano.
    L’autrice, con il ricorso al ready made e al remake di materiali peculiari in sé portatori di senso, concretizza un’opera che in un unico sguardo ‘comprende’ e rende contemporanei passato, presente e futuro.
    Tra bianco/nero e colore non saturi, su un continuo rimando cronologico, e con meticolosa attenzione, richiama e fonde ad arte la necessità della memoria del passato con la consapevolezza dell’abbandono di luoghi un tempo decisivi nella vita comunitaria, e con la necessità di far rivivere, in una nuova, possibile accezione e con rinnovato valore, ciò che era stato vitale per una certa realtà. E’ da segnalare che la realtà passata che l’autrice recupera e rilancia, era tale per gli essere umani che la animavano, proprio coloro che vediamo in quelle foto, con il loro corpo, il loro lavoro, ma anche con un loro vissuto e un loro nome, e che costituivano comunità attiva.
    Le rappresentazioni grafiche del progetto architettonico sono le immagini del futuro desiderato, e danno concretezza alla richiesta di una nuova e ben diversa destinazione di quel che fu lo zuccherificio, e al lavoro di restauro da affrontare.
    Rivelatrice è la loro posizione. Il futuro appare come vero pilastro in quanto apertura e chiusura del discorso in opera di Virginia e, al tempo, sottolinea con la posizione anche centrale il legame, non certo deterministico, con il passato. Alcuni linguisti evidenziano che la radice di futurum, da cui deriva il nostro corrispondente vocabolo, è “fu”, stabilendo quindi un chiaro e vivo legame con un passato che, pur con i nostri condizionamenti, può trasmutarsi in elemento propulsivo per un futuro che consapevolmente scegliamo di generare con le nostre azioni presenti. Presente è ogni istante del vivere quotidiano, ogni attimo successivo è già Futuro.

    Eletta Massimino

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