Fotografia Regionale

Il Real Albergo dei Poveri nello sguardo di Giancarlo De Luca – di Francesca Sciarra

Mostre del territorio.

 

 

Tra qualche giorno il MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ospiterà nelle sale dedicate alla Collezione Farnese la mostra fotografica “Il Real Albergo dei Poveri” di Giancarlo De Luca.

Ero solo un bambino – mi racconta Giancarlo in una nostra recente conversazione – quando mio padre mi fece il regalo più importante che abbia mai ricevuto, una Kodak Retinette degli anni ’60, e mi fornì i primi rudimenti di quella che in poco tempo sarebbe diventata la mia più grande passione.

La scoperta della fotografia, ed in particolare la possibilità di mettere a fuoco dei dettagli attraverso cui ricostruire vicende del passato, anche vecchie di secoli, ha rappresentato per Giancarlo quasi un superpotere, quello di rinnovare la memoria storica dei luoghi, di offrire nuova luce a ciò che era a rischio di “estinzione”, e voce a chi non era più in grado di raccontare.

Ma prima di parlare delle fotografie di Giancarlo, occorre ricordare un pezzetto di storia napoletana per capire meglio lo spirito con cui l’autore ha affrontato la sua “collezione fotografica” iniziata ormai una decina di anni fa.

Il Real Albergo dei Poveri (detto anche Palazzo Fuga), grandioso edificio lungo 400 metri per una superficie di 103 mila metri quadrati, è il più grande palazzo monumentale di Napoli e una delle maggiori costruzioni settecentesche d’Europa. Fu voluto dal Re Carlo III di Borbone per accogliere le migliaia di poveri del Regno, in linea con lo spirito illuministico dell’epoca, con quella vocazione assistenziale tipica dei reali del ‘700.

Siamo nel 1749: l’opera viene affidata all’architetto fiorentino Ferdinando Fuga e, dopo la sua morte, proseguita da Gioffredo e Vanvitelli. I lavori dureranno fino al 1819, ma il progetto iniziale non sarà mai portato a termine.

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Attraverso queste imponenti mura, in tre secoli di storia, sono passati orfani, scolari, suonatori, apprendisti di vari mestieri, sordomuti, operai di officine meccaniche, atleti, vigili del fuoco. Varie volte Palazzo Fuga ha cambiato destinazione, ospitando persino un cinema, il Tribunale per i minori e un centro di rieducazione, e in ultimo una sezione dell’Archivio di Stato.

Purtroppo il terremoto del 1980 ha danneggiato gravemente la struttura che, passata al Comune di Napoli, attende ancora oggi un’opera definitiva di ripristino, nel quadro dei numerosi vincoli che ne condizionano la destinazione d’uso.

Integrato perfettamente in un’area popolosa della città, nella trafficata via Foria, a ridosso dell’Orto Botanico, Palazzo Fuga è da sempre oggetto di riflessioni architettoniche per il suo incredibile valore simbolico e sociale.

Ma torniamo all’autore.

Nato all’ombra dell’antico “Serraglio” (così veniva definito nel gergo popolare l’Albergo dei Poveri), Giancarlo si è sempre chiesto cosa ci fosse dietro quella facciata severa e silenziosa. Le sue incursioni fotografiche sono iniziate quasi per gioco, per curiosità, per complicità con quelle mura che vedeva dalle finestre della sua scuola.

Attratto dalla memoria dei luoghi, spinto dal timore che l’annunciato restauro potesse coprire con dell’intonaco nuovo e una mano di pittura quell’atmosfera di desolato abbandono che lui aveva imparato a conoscere sin da piccolo, Giancarlo ha usato la sua fotocamera per ricostruire storie e vicissitudini del Palazzo: un modo per dare forma e memoria a quelle migliaia di persone che lì hanno vissuto e col passare del tempo sono state dimenticate.

È così che inizia a fotografare quello che può, di volta in volta, con pazienza, approfittando di eventi, aperture occasionali, visite guidate. “Una raccolta lenta, silenziosa e rispettosa”, come lui stesso ama definire la sua collezione.
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In
punta di piedi mi sono scorto negli anfratti, ho allungato l’obiettivo in qualche varco formatosi da un crollo, ho spiato dalle finestre tra i frantumi dei vetri, immedesimandomi negli ospiti che avevano riempito di voci e corpi quei luoghi così fuori posto nella loro attuale vuota vastità.

Per la mostra sono state selezionate 25 fotografie, descrittive di ambienti e dettagli architettonici. L’uso del bianco e nero richiama immediatamente un passato remoto, pur essendo impiegato, paradossalmente, in una rappresentazione del presente. Ma il bianco e nero è anche minimalista, sottolinea i contrasti, amplifica luci e ombre, suscita in noi emozioni forti. La razionalità che incontra l’irrazionale.

Gli spazi sono rappresentati con un rigore di linee nette, tra cornici di porte e finestre aperte, che contengono in sé la staticità più assoluta. Eppure fra quei varchi, lungo quei corridoi, in cima a quelle scale, sembra di scorgere l’ombra di qualcuno che si allontana, e si prova la strana sensazione di non essere soli.

Un senso di movimento aleggia ovunque, e quelle linee sono a tratti spezzate da oggetti di vita quotidiana, sedie, banchi, letti, libri, scarpe, utensili da cucina, carcasse di automobili, scritte sui muri, che raccontano tutti la presenza della vita trascorsa e poi interrotta quasi all’improvviso, dolorosamente.

Mi viene naturale pensare alle sue immagini come ad un trait d’union tra quello che c’era prima, quello che è adesso e quello che verrà dopo.
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Ho chiesto a Giancarlo quale sia la sua foto preferita e lui mi ha indicato la foto di una sedia, simbolo della dignità di generazioni di persone passate di lì, perché su quella sedia, chissà quanti anni fa, un giovane orfano era seduto per apprendere la sua lezione. Una sedia vuota contro un muro scrostato dal tempo, nel silenzio assordante di un’aula in cui sono impresse le voci di migliaia di bambini.

 

 

Giancarlo De Luca
Ha superato da poco i 50 anni, laureato in Giurisprudenza, lavora in Banca da oltre 20 anni e la sua passione per la fotografia non ha confini. “Vivo costantemente interpretando il mondo attraverso le mie immagini perché solo fotografando riesco ad assaporare veramente la realtà che mi circonda. La Fotografia come catarsi della realtà, specchio della mia anima, strumento per selezionare la bellezza in ogni cosa che vedo, e, suo tramite, rendere immortali nel tempo i segni del passato, la memoria dei popoli e la cultura dei luoghi.

 

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