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La street photography è una gatta.

Iniziamo il nostro percorso di preparazione del Forum dei Collettivi con la pubblicazione di una serie di contributi testuali dai quali sviluppare gli approfondimenti della giornata di studi di Bibbiena.

Dopo aver ripercorso “propedeuticamente” la storia della street con il Collettivo mignon (www.fiaf.net/social/2019/02/20/per-una-storia-della-street-photography-italiana/), inauguriamo questo spazio con un testo di Leonello Bertolucci, che ringrazio per la consueta e pronta disponibilità.

La street photography è una gatta.

La street photography è di moda, e le mode non mi piacciono.
Ma la street photography eccome se mi piace! Mi piace anche – forse soprattutto – perché è po’ come i gatti: anarchica, sfuggente, ruffiana, seduttiva, e ha molte vite.
E visto che non amo nemmeno le definizioni, ecco allora l’unica che ho per il genere fotografico meno definibile: la street photography è “una gatta fotografica”, che quando fa le fusa, difficile rimanere lontani e indifferenti.
La street è una fotografia che nasce nobile, e sembra un’affermazione paradossale vista la povertà di mezzi che richiede per la sua pratica: una macchina fotografica possibilmente leggera e un paio di scarpe comode (citando Koudelka). Ma quale lusso maggiore un uomo può concedersi che quello di “perdere tempo”, di essere uno splendido flâneur, di scrivere sul suo biglietto da visita “sfaccendato di talento”?
La fotografia di strada, oltre a rifiutare definizioni che la ingabbiano, non accetta canoni, stilemi, regole, motivazioni dichiarate. Esisteva anche prima di chiamarsi street photography, ogni diverso libro di storia della fotografia ne attribuisce la paternità a questo o quel fotografo, la fa nascere in questo o quel periodo, in questo o quel Paese. E avanti il prossimo.

Quale relazione, connessione, intreccio esiste tra reportage e street photography? Nessuno, affermano gli uni. Invece la street è reportage a pieno titolo, asseriscono gli altri. E in lontananza l’eco di quelli che  “La street photography non esiste!”.
In questa vecchia diatriba la questione centrale sembra riassumersi nella fatale parola “progettualità”, che sarebbe necessariamente presente nel reportage ma non nella street. Secondo quest’interpretazione è reportage solo quello del fotografo che dice: ”Domani vado sulle Ande a documentare la pastorizia”.  Chi invece s’immerge nell’imprevedibilità di un luogo vissuto e ne prende regali sotto forma di frammenti e istanti sarebbe, in sostanza, un perditempo senza idee.

Io auguro lunga vita a tutti i flâneur “sfaccendati di talento” di ieri e di oggi che ci hanno offerto intensi affreschi di intere società percorrendone le strade. In loro – in quelli consapevoli – il progetto c’è eccome, ma non è un argomento delimitato, bensì la restituzione personale di un mondo. Mondi e società da capire in trasparenza osservandone facce, abitudini, vestiti, edifici, mercati, automobili, strade, strade e ancora strade.

C’è però un piccolo grande dettaglio: ogni tessera di quel mosaico, ogni singola foto, deve essere formidabile. Se così è, si può uscire tutti i giorni nella propria città per anni, fotografare senza un “mitico progetto” se non quello di soddisfare la curiosità e giocare col caso, e se un giorno si selezionerà il meglio di tutto questo, si saprà editarlo, si riuscirà a raccontare con uno stile e una visione coerenti la vita che pulsa in quella città, poco importerà definire il risultato street photography o reportage, poco importerà stabilire se c’era un progetto o meno. L’unica cosa veramente essenziale e dirimente sarà solo e soltanto la potenza del risultato.
Ed eccoci al dunque: il livello medio di molta della street photography che gira a quintalate per social, mostre e mostriciattole. Purtroppo, va detto, buona parte di questa ”onda street” che da qualche tempo monta spumeggiando, è qualitativamente abbastanza modesta, tirata via e immatura. La fotografia di strada viene erroneamente percepita da molti entusiasti quanto acerbi fotografi come facile (e qui c’è anche lo zampino del marketing, sia di fotocamere che di smartphone). Tutto è, la street, tranne che facile, al contrario è la sfida più difficile, azzardata, aleatoria, estrema e per questo avvincente tra tutte le maniere di declinare l’atto fotografico. Certo, per la legge dei grandi numeri, tra tanti risultati deboli che soprattutto in rete è dato vedere, spiccano anche alcuni talenti da urlo.

Non fraintendetemi, non sto smontando la street photography, al contrario: questo è un inno e un atto d’amore. Un invito a rispettarla, a trattarla con cura, a non sottovalutarla né sminuirla.
La street, così immersa tra la gente, è la fotografia forse più intima che ci sia. E se ne frega

che mille collettivi, blog, workshop, contest, siti dedicati, manuali e mostre si occupino di lei: lei vuole essere amata da chi ama gli altri e la vita. Questo è l’incommensurabile lato positivo della street photography, superiore di gran lunga a tutti quelli negativi che possiamo vedere e analizzare.
E’ meravigliosa questa grande voglia di ributtarsi nella mischia. Un’urgenza fisica e mentale di dare due martellate al monitor e passare dai social al sociale. Riscoprire che per vedere e capire il mondo servono più le gambe che il wi-fi. La street aiuta a sentirsi vivi, attenti, pronti, dinamici e aperti, ci fa ritrovare più che il tempo perduto il vento perduto, quel vento che chiusi in una stanza non ci accarezzava più.

Questa  voglia di strada, in definitiva, pur essendo una sirena che illude molti nei risultati, è cosa buona nelle motivazioni: la voglia di strada è voglia di vita.
Chiudo come ho iniziato, alzando bandiera bianca davanti a qualsiasi richiesta di definire cos’è la street photography; potrei casomai tentare di dire cosa non è, ma sarebbe solo una definizione al contrario.
E così, dopo averci guardato negli occhi con fierezza e una sottile aria di sfida, la nostra gatta riprende il cammino verso le sue visioni e le sue avventure randagie, pronta a graffiare chi non la rispetta.

 Tutte le foto © Leonello Bertolucci

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