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Ghirri e la ceramica

Cos’hanno in comune Luigi Ghirri e la ceramica, oltre quel distretto dalle condizioni che facilitano fotografia e ceramica? Si potrebbe dire che il trait d’union si rintracci in un’imprenditoria illuminata, o almeno penso che si definisca ancora così, considerate le piroette linguistiche  del processo in atto di ridenominazione della qualunque (tipo blastare per zittire, bufu per fanculo, e così via…). Comunque sia, la risposta ce la fornisce la mostra “Luigi Ghirri. The Marazzi Years 1975 – 1985” curata da Ilaria Campioli inaugurata il 16 settembre al Palazzo Ducale di Sassuolo, e realizzata dalle Gallerie Estensi in collaborazione con l’Archivio Luigi Ghirri e il gruppo Marazzi.

L’input da cui ha origine la mostra è appunto una committenza, che Ghirri interpreta allontanandosi dai canoni del linguaggio pubblicitario, rendendola piuttosto un’estensione della sua stessa poetica fotografica, un supplemento cioè di esplorazione di temi a lui cari. E in questo corpus di 30 opere, mai mostrate prima al pubblico, si sintetizza un percorso che attraversa le diverse fasi propedeutiche per Ghirri al fotografare: vedere e rappresentare, con il portato culturale e tutte le rielaborazioni di pensiero che riempiono lo spazio fra queste due azioni. Così nella foto che ritrae degli occhiali anonimi, semplici lenti che rimandano all’obiettivo della fotocamera, è possibile riconoscere la metafora del vedere che si farà poi sguardo. Uno sguardo educato dallo studio della prospettiva, e più in generale dalla storia dell’arte, come rivela la serie di studi che fanno parte di questa selezione in cui l’atto finale, il fotografare, diventa esso stesso oggetto di una rappresentazione concettuale: mettendo in scena un set in cui compaiono una foto in bianco e nero, una macchina fotografica e la mano del fotografo, Ghirri fotografa non solo l’atto del fotografare, ma la fotografia stessa. Con l’avvertenza finale di diffidare di ciò che la fotografia mostra: specchi, ombre, fiori reali e fiori disegnati. Qual è la realtà e quale l’illusione, qual è il confine fra paesaggio esterno e paesaggio interiore, quello dei ricordi e quello dell’immaginazione?

“La ceramica ha una storia che si perde nella notte dei tempi – scrive Luigi Ghirri a proposito del suo lavoro -, è sempre stata un ‘oggetto’ su cui si vengono a posare altri oggetti: i mobili, i gesti, le immagini, le ombre delle persone che abitano quegli spazi. Realizzando queste immagini, ho ripensato a tutto questo e ho cercato di ricostruire, con l’aiuto di superfici di diversi colori, nella sovrapposizione degli oggetti e delle immagini, uno spazio che, invece di essere lo spazio fisico e misurabile di una stanza, fosse l’idea dello spazio mentale di un momento, di una sovrapposizione che può prodursi o si produce, in una delle numerose stanze riscoperte grazie a queste superfici. Questo lavoro, al di là di altri significati, è la ricostruzione di alcune stanze della mia memoria”.

Per tornare alla domanda iniziale, si può dire perciò che nello sconfinare dal proprio specifico, Ghirri e Marazzi, fotografia e ceramica, mostrano di avere in comune l’attitudine alla sperimentazione, sia del linguaggio che degli usi. E se di Ghirri sappiamo ormai tutto del percorso autoriale, non tutti conoscono la storia di  Marazzi, che negli anni ’80 crea “Il Crogiòlo”, un centro di ricerca internazionale dove convergono designer, architetti, storici dell’arte e fotografi come Gianni Berengo Gardin, Cuchi White, Charles Traub, John Batho, Elliott Erwitt, Andrea Ferrari e  Adrian Samson.

Insieme a questa di Sassuolo, che fra l’altro è allestita negli spazi dell’Appartamento dei Giganti, che aprono al pubblico per la prima volta dopo il restauro, è in corso un’altra mostra di Ghirri (fino al 23 settembre), e anche questa ha a che fare con la ceramica, sebbene solo come ambientazione installativa, e dunque realizzata secondo una diversa ispirazione: si tratta di “Between the Lines”, curata da Sarah Cosulich e allestita negli spazi di Casa Mutina Milano, una preziosa occasione, fra l’altro, per godere delle stampe vintage provenienti dalla collezione privata di Massimo Orsini. L’occasione è la presentazione della collezione progettata da Konstantin Grcicè, DIN, acronimo di Deutsches Institut für Normierung ma anche slang tedesco del foglio di carta A4, ma a differenza da Sassuolo, qui in mostra c’è una selezione di opere provenienti da serie diverse, da Atlante e Still-Life a Paesaggio Italiano che hanno in comune, come si legge nel bel catalogo antologico che è anche un tributo affettivo, “l’ossessione di Ghirri con l’inquadratura e la sua capacità di costruire uno spazio di visione universale nello spazio dell’esperienza. Le linee nel suo lavoro rappresentano un modo di racchiudere e al tempo stesso di rivelare: appaiono come una struttura di pensiero, come strumento per orientarsi e, al tempo stesso, metodo per aprire le immagini all’infinito che le circonda. Sottolineare l’importanza dell’inquadratura – che Ghirri ottiene direttamente nel suo sguardo e raramente attraverso un successivo processo di editing – è per l’artista un modo per avvicinarsi alla realtà, come se l’idea stessa di confine potesse dilatare l’immagine molto oltre a ciò che è in essa contenuto.”

Dunque due mostre, che si aggiungono alle altre dedicate negli ultimi anni a questo gigante della fotografia, con in mezzo la grande retrospettiva di Roma, indice sicuramente di un percorso di ricerca che dispiega ancora oggi tutta la sua carica prospettica; ma un dubbio, o forse un timore, occhieggia dentro da qualche parte, sempre ricacciato giù. Luigi Ghirri come Vivian Maier o Steve McCurry?

Attilio Lauria

www.gallerie-estensi.beniculturali.it/mostre/luigi-ghirri-the-marazzi-years-1975-2/

www.mutina.it/it/exhibitions/beetweenthelines

   

 

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