La fotografia come esercizio di democrazia, «perché – spiega Rosaria Chimenti – è un mezzo che offre a chiunque infinite possibilità espressive.»
La fotografa è nata nel 1971 a Montepulciano e vive ad Arezzo. Si è avvicinata alla fotografia nel 2015 frequentando il circolo aretino “Imago” affiliato alla FIAF. La fotografia è per lei passione e svago, niente di più, niente di meno. Ha iniziato con il digitale, ma presto sperimenta le Lomo e, soprattutto, le Polaroid, affascinata dall’effetto sorpresa che queste macchine possono riservare. È però la Polaroid che predilige per l’immediatezza del mezzo, per l’affrancamento da ogni sorta di post–produzione e per la matericità che offre. Esclude ogni intervento di sorta sulla pellicola: «Posso anche arrabbiarmi – dice Rosaria – quando i risultati sono appena decenti, altre volte invece il risultato mi sorprende e mi entusiasma»
La Polaroid è utilizzata dalla Chimenti soprattutto per gli autoritratti e per la rappresentazione dei fiori. I suoi self portrait sono anche frutto di una personale ed intima performance preparatoria, quando decide il trucco da utilizzare, gli abiti da indossare e, naturalmente, la posa da assumere. «Questo mio progetto con le Polaroid – dice – nasce dall’impertinente volontà di smentire con immagini dissonanti e quasi superficiali l’idea che quotidianamente offro di me. È un gioco di travestimenti, atteggiamenti spavaldi e sguardi vanitosi che suggeriscono l’inganno celato dietro ogni fotografia: io sono colei che mi si crede? Nessuno in fondo mi può inquadrare.» Gli autoritratti sono delicati, eterei, come apparizioni fugaci ed improvvise. Pare che la pellicola abbia fatto appena in tempo a fissarli con la chimica dei suoi acidi. «Con questi delicati autoritratti, – ha scritto di lei Frank Dituri – la fotografa ci sta mostrando un’altra versione di se stessa. In queste immagini l’artista ci offre uno scorcio del suo lato privato, lasciando allo spettatore la possibilità di rispondere alla domanda: chi è questa donna immaginaria? Per godere appieno di queste sue piccole Polaroid mostrate su una parete, è necessario per il fruitore stare a distanza ravvicinata, il che rende l’esperienza di visione ancora più intima.» La stessa struttura evanescente ritorna nelle fotografie dei fiori, quasi sempre quelli di campo, tutti più teneri ed impalpabili.
Rosaria Chimenti non rinuncia al digitale che utilizza per… guardarsi intorno. La sua è ricerca del mondo vicino ed a portata di mano; si sofferma sulle cose che la circondano, semplici ed ordinarie. Sono stretti paesaggi urbani, composti di pochi elementi, oppure il mare d’inverno. Ottiene così una geometria pulita, discordante con quanto nella realtà ci circonda. Sembrano set cinematografici di finzione. Assente la gente, per via della sua naturale timidezza e per il rispetto che ha a non invadere la sfera personale altrui, come sarebbe invece necessario per una qualsiasi foto di street. Il risultato è una realtà che non c’è: un’astrazione del vero. «Nel momento in cui si inquadra una cosa, – dice Rosaria Chimenti – decidendo cosa deve stare dentro l’immagine e cosa invece va tenuto fuori, si interviene sul reale, astraendolo.»
testo di Giovanni Ruggiero