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Fotografia vernacolare? Non merita pernacchie – di Enrico Marello

 
 
 
 
 
 
 

Fotografia vernacolare? Non merita pernacchie –
di Enrico Marello

L’espressione “fotografia vernacolare” si è diffusa nella critica fotografica come traduzione dell’inglese “vernacular”, termine che indica sia il linguaggio locale (dialettale), sia l’uso popolare di uno stile artistico (“specialized art, music dance, music, art, etc. that is in a style liked or performed by ordinary people”: così il Cambridge Dictionary online). In italiano, vernacolare non viene adoperato in questo secondo modo, limitandosi ad indicare un uso linguistico sub-dialettale (vocabolario Treccani online). Se, però, si risale all’etimo, si scopre che vernacolo, indica “paesano, domestico” e “relativo agli schiavi nati in casa”; la “pernacchia”, rumore triviale che esprime disprezzo, deriva proprio da vernacolo “quindi volgare, plebeo” (DELI, Dizionario etimologico della lingua italiana).
Ecco qui: la fotografia vernacolare è quella che, realizzata senza esplicite ambizioni artistiche, merita le pernacchie dei “colti fotografi”. Normalmente, la fotografia vernacolare viene definita anche con riferimento agli usi: nella critica del XX secolo, rientrano nel vernacolare la fotografia commerciale e industriale, cui va aggiunta la fotografia per uso personale (tendenzialmente di documentazione di una storia individuale o familiare).
La fotografia vernacolare è una categoria utile?
Intanto, occorrere mettere in evidenza che quello che in un certo momento storico può apparire “vernacolare”, può essere null’altro che avanguardia o sperimentazione artistica, spesso incompresa da chi attribuisce l’etichetta di vernacolare.

Atget
Due esempi su tutti: il grande Atget, prima che fosse scoperto dai surrealisti, veniva inteso certamente come un fotografo vernacolare, mentre oggi lo riteniamo uno dei padri della fotografia del ‘900; August Sander, con il suo progetto Menschen des 20 Jahrhunderts, poteva essere considerato dall’esterno un fotografo vernacolare non distinguibile dai ritrattisti da strada (o studio) del primo novecento ed invece era il padre di un certo tipo di fotografia documentaristica, mossa da un chiaro progetto artistico.
Sander
Poi, se nell’insieme del vernacolare si fa rientrare anche la fotografia commerciale, il gioco demistificante diventa fin troppo semplice, pensando a grandi artisti che hanno lavorato felicemente su commissione, producendo opere che costituiscono la base dell’immaginario moderno: Avedon, Mapplethorpe, Weston, Michals ed infiniti altri.
Mandell e Sultan – da Evidence
 
Mandel e Sultan, con il loro libro Evidence (1977) hanno dimostrato, infine, che anche la fotografia industriale può creare opere di grande impatto, sulla linea della photo trouvée.
Emerge, allora, che si deve essere molto prudenti nell’attribuire del “vernacolare” ad un qualche uso fotografico. Facciamo, però, un passo in avanti nella ricerca contemporanea di un “vernacolare”: consideriamo l’uso fotografico dei social media.
 
Mandell e Sultan – da Evidence
Qui, mi pare che nei nostri circoli ci sia una tendenza allo spernacchiamento. Tante volte ho sentito amici soci esprimere un senso di superiorità rispetto all’inesausto flusso social di foto apparentemente banali. Semplificando, pensiamo alla foto un po’ sghemba, più o meno a fuoco (in maniera involontaria), di un piatto di linguine allo scoglio, postata su Facebook: uno scatto che ha avuto un tempo di “produzione” brevissimo e che avrà un tempo di consumo probabilmente breve.
 

 
“Quella non è vera fotografia, quella è fotografia incolta (vernacolare)!” questo tendiamo a sentire nei nostri circoli.
Davvero è questa la fotografia vernacolare? E se sì, è da relegare nell’irrilevante?
 

Joachim Schmid
 
Secondo me neppure questa foto merita una pernacchia (sempre che esistano foto che ne meritano). Per almeno tre ragioni.
La prima: se vogliamo ragionare in una prospettiva di uso artistico, l’immenso oceano delle foto social consente raccolte e composizioni che costituiscono, almeno negli ultimi anni, una delle tendenze più diffuse: da Schmid, Other People’s Photograph a Kessels, Useful Photography, a molti altri che si collocano nella Appropriation art (su cui cfr. il post di Gabriele Bartoli, goo.gl/YsYfg7).
La seconda: se analizziamo queste foto nella prospettiva dell’uso sociologico, costituiscono una miniera favolosa di considerazioni sulla rappresentazione del sé e del rapporto con gli altri (analizzando la loro funzione sui social media).
La terza: se consideriamo queste foto nella prospettiva della decifrazione dell’immaginario collettivo (alla Mitchell), queste “piccole” foto costruiscono in via alluvionale l’immaginario collettivo in maniera molto più rilevante di quanto facciano le poche foto di avanguardia artistica e di quanto facciano le nostre foto di appassionati “consapevoli”.
 
In conclusione: non so se esista una fotografia vernacolare, ma se esiste probabilmente non merita una pernacchia, ma piuttosto un occhio attento.
 

Enrico Marello

 
 
 
 
 
 
 

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5 commenti

  1. Enrico Marello affronta in modo brillante la perenne diatriba fra foto cosiddetta “facile”, “commerciale”, ” di consumo” e la foto “colta”, “artistica”. E’ vero che l’immagine vernacolare, probabilmente non approderà mai sui tavoli delle letture portfolio, ma, come ci ricorda giustamente Enrico, è una realtà con la quale dobbiamo confrontarci e dalla quale possiamo trarre utili insegnamenti per trovare ed impostare un nostro stile personale.Tutta la fotografia, purchè non travalichi il buon gusto, è meritevole di considerazione e di dignità. Grazie Enrico per questo interessantissimo contributo.

  2. Enrico ha presentato una ricca e approfondita ricerca su una definizione che viene usata per rappresentare una tipologia di immagini che possono essere solo apparentemente “banali”.
    Spesse volte nella fotografia “cosiddetta” vernacolare troviamo invece molta più sostanza che in quella autoriale.
    Ribadisco sempre che è la coerenza, la contestualizzazione e l’utilizzo, che di un’ immagine ne determina il proprio “peso”.
    Personalmente non utilizzo questa terminologia, proprio per il rispetto che si deve ad una fotografia/immagine prima di averla decodificata e sviscerata dei suoi contenuti.
    Complimenti Enrico per la tua riflessione, che permette di fare maggiore chiarezza su un termine che non amo e che ritengo molte volte mal utilizzato.

  3. La Fotografia Vernacolare è quella che comunica, più di altri generi fotografici, l’immaginario collettivo dell’epoca cui appartiene.
    Per questo appartenere più alla massa che alla soggettività del fotografo, paradossalmente, renderà queste immagini sempre più importanti col passare degli anni.
    Avete mai guardato foto sui banchi dei mercatini dell’antiquariato? Non è strano notare come il nostro sguardo passa rapidamente dal soggetto al mondo che ha attorno, questo perché se del soggetto molto probabilmente non sapremo mai nulla, del paesaggio naturale o urbano/domestico in cui è immerso invece potremo trarre informazioni. Si accende in noi la vertigine del tempo.
    Per esperienza fanno una triste fine le “foto artistiche”, perché passata l’epoca in cui erano di gran moda tra gli amatori del loro tempo, raramente vengono poi apprezzate in epoche successive; questo perché la stretta cerchia degli appassionati che le possono apprezzare sono attratti da altre tendenze. Purtroppo è così: più un’immagine è codificata stilisticamente e più è breve la sua vita pubblica.
    Da tutto ciò emerge che vince molto spesso il valore dell’archetipo fotografico: la foto come impronta luminosa del soggetto che ha valore anche se lo scatto è nato casualmente e non dalla scelta visiva del fotografo.
    Un’immagine tecnica trova sempre una legittimazione di senso grazie all’inconscio ottico e a quello tecnologico (in particolare con gli apparecchi di ripresa di oggi che possono produrre immagini del reale senza l’intervento tecnico del fotografo).
    Grazie a Enrico Marello d’aver aperto il dibattito su questo argomento per noi così importante.

  4. Grazie ad Enrico ho aperto gli occhi su un aspetto fotografico di cui non sospettavo l’importanza. Per la verità, come tanti, della maggior parte delle foto “banali” presenti nei social, tendevo a fare “di tutta l’erba un fascio”. D’ora in poi il mio occhio sarà più critico e mi farò più domande. Trovo le foto e l’introduzione presentate da Enrico molto esplicative ed altrettanto utili i commenti successivi: un’ulteriore conferma della preziosa utilità fornita da questo blog.

  5. Certamente d’accordo con Enrico Marello, la fotografia vernacolare non merita pernacchie ma piuttosto un occhio attento!
    Penso anche a quanto sia importante questo concetto per la fotografia di Walker Evans e per l’esperienza di uno dei suoi discepoli: Stephen Shore.
    Grazie a quest’ultimo “banali” cartoline di paesaggio urbano o piatti di cibo, molto simili a quelle riportate in questo articolo, si trasformano in icone che oggi fanno parte della storia della fotografia.
    Il suo libro “American Surfaces” è sicuramente una pietra miliare. (a questo link si può vedere:https://www.youtube.com/watch?v=dKBS9IUYj1I)
    Ma nel 1972, come racconta Shore, erano ritenute immagini “terribili” […] “penso che la gente non sia nemmeno arrivata a considerare il soggetto! come se non bastasse le foto erano a colori”.
    Eppure a guardale oggi dopo quasi 50 anni assomigliano tanto alle foto che noi postiamo giornalmente sui social.
    Grazie quindi a Enrico per questo suo post di approfondimento e al direttore per aver aggiunto un’ulteriore sfumatura al concetto di “foto artistica”.

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