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CONFINI_elaborazione del Concept_09-LAB Di Cult 124 e 125 FIAF

A cura di Claudia Ioan

«Gli esseri umani tracciano linee che dividono il mondo in specifici luoghi, territori e categorie. Siamo “esseri geografici” per i quali la creazione di luoghi, e di conseguenza il processo di produzione di confini, sembra naturale» 

da A Very Bordered World, di Alexander c. Diener e Joshua Hagen, via Anssi Paasi

Il tema Confini si presta a declinazioni praticamente infinite, e il suo fascino risiede forse proprio nell’opportunità di scandagliare insieme il mondo e la nostra anima con piena libertà di interpretazione. È un tema di attualità sempre rinnovata e tocca un gran numero di campi del sapere, dalla geografia alla politica, dall’economia alla sociologia, tanto da determinare la nascita di una disciplina dedicata, i Border Studies. Il mondo è in via di trasformazione continua e nell’analisi delle accezioni possibili dei confini non si può prescindere dai fenomeni di globalizzazione e migrazione, solo per fare un primo esempio.

L’epoca non si presta a un’accezione di confine in senso rigido, con linee di demarcazione nette e stabili, anche se l’uomo continua a costruirne e ne ha bisogno per definire la propria identità in rapporto all’alterità. È possibile identificare confini in senso diacronico in tutti gli aspetti umani, non solo geopolitici ma anche antropologici: come ha ben insegnato Arnold Van Gennep nei suoi ormai classici Riti di Passaggio, l’esistenza di una demarcazione (riconosciuta come tale all’interno di una cultura) consente un passaggio consapevole da uno stadio all’altro della vita, con un’evidente spazializzazione simbolica che ci riguarda come umanità tutta, vedendoci protagonisti di una relazione attiva e sempre più sfaccettata con lo spazio – non solo fisico – che abitiamo.

In questa prima parte della declinazione del concept, affronteremo alcune distinzioni, le più immediate, tra confini materiali e immateriali.

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«Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola» (Khalil Gibran)

CONFINI: “INSIEME ALLA FINE”

L’etimologia della voce latina ci insegna che al limite di ciò che è mio e che mi identifica (finis) inizia ciò che è altrui: è lì che incontro l’altro (con). Io e l’altro ci troviamo “insieme alla fine”. Il confine è separazione, ma è anche luogo di contatto, che sottintende e prefigura l’esistenza dell’altro. 

Nella nostra cultura, ogni limite netto (della proprietà, del luogo geografico) implica il riconoscimento dell’alterità e allo stesso tempo consente la costruzione della nostra identità. Noi siamo noi rispetto all’altro.

Il binomio identità/alterità quali elementi che si fronteggiano e si definiscono reciprocamente al confine è presente in molteplici forme in infiniti ambiti. Vi sono confini fisici, naturali o artificiali, geografici, politici, linguistici; ma vi sono anche confini immateriali, interni, culturali, sociali, economici che indicano compresenza nella differenza, che includono o escludono, che alcuni desiderano erigere o mantenere, che altri tentano di abbattere.

CONFINI IMMATERIALI: LA POLITICA

A volte, la separazione assume la forma di conseguenza di azioni politiche che necessariamente riverberano sulla sfera collettiva e personale, segnando vicende umane che la fotografia non manca di indagare.

In Separation – What Does Brexit Mean For Love?, Laura Pannack, brillante fotografa inglese, su commissione del British Journal of Photography nel 2018 ritrae quattordici coppie di doppia nazionalità residenti a Londra all’indomani del voto della Brexit (che ha imposto nuove leggi sull’immigrazione).

 

Foto 1. Separation, Laura Pannack ©

 

Ogni fotografia narra una vicenda personale; ogni volto ritratto ha un nome e un cognome. Separation esplora le emozioni di fronte all’ipotesi di doversi separare dai propri partner e dalle proprie famiglie. L’opera poggia su un solido impianto concettuale e si articola secondo il criterio della serialità rigorosa in un insieme estremamente coerente di ritratti, tutti realizzati in studio, tutti con la medesima composizione pur presentando varianti – piccole ma significative – nelle pose. Le immagini non sono drammatizzate: l’autrice suggerisce con garbo sentimenti profondi di attaccamento reciproco e dolore nell’affrontare una separazione imposta. I protagonisti sono avvolti da una palette di colori delicati, a suo modo luminosa ma la cui malinconia è inevitabilmente esaltata dalla posa e dall’espressione del viso. Tutti sono immersi in una sorta di bolla che li sospende dalla vita ordinaria. Privati del contesto della normalità quotidiana e senza appigli, hanno già perso il contatto diretto con il proprio partner a cui si aggrappano comunque. I soggetti risultano separati da un filtro impalpabile ma reale, che incarna una metafora limpida e leggibile, essenziale e incisiva: il linguaggio è pacato ma l’affermazione è potente: la separazione è inevitabile.

 

Foto 2. Separation, Laura Pannack ©

 

CONFINI IMMATERIALI: LE DIFFERENZE SOCIALI

Nella sua monumentale opera multimediale dal titolo American Geography, Matt Black, fotografo della Magnum Photos, analizza ed esalta il divario incolmabile che condanna una larga fascia della popolazione alla povertà proprio negli USA, il Paese delle opportunità. A fronte di confini tra stato e stato ben individuati e rimarcati da caratteristiche culturali nazionali molto ben leggibili in ogni fotografia, intangibili ma non per questo meno reali risultano essere i confini di natura socio-economica. Dal 2014 al 2020, partendo dalla sua città natale in California, Matt Black viaggia per 100.000 miglia attraverso 46 stati americani, seguendo metodicamente un itinerario studiato per toccare solo città in cui la soglia della povertà si assesta minimo al 20% (raggiungendo anche il 50%): comunità distanti non più di due ore macchina, tutte segnate da piaghe sociali ed economiche, a volte anche ambientali e sanitarie. 

 

Foto 3. American Geography, Allensworth, California, Matt Black ©

 

La progettualità dell’opera carica di significati precisi ogni singola immagine, che occorre leggere in funzione del quadro generale malgrado abbia sempre anche una sua forza visiva autonoma. Con un approccio fotografico incentrato su un bianco nero spesso fortemente contrastato, declinato in esiti differenti (mostre fotografiche, libro e cortometraggio), variando formati e medium, il fotografo esplora il potenziale di un insieme di approcci coesistenti che ritmicamente spaziano dal paesaggio al reportage, dalla Street Photography al ritratto posato, fino allo Still Life e al formato superpanoramico, alternati al video. Nella sua geografia della povertà, Matt Black rinnova continuamente lo sguardo e la visione con determinazione quasi dolente e icastica, mai commiserativa. Con empatia e professionalità, apertura verso l’altro e maestria, raccoglie scorci urbani e paesaggistici, esterni, interni, volti, e non manca di registrare voci e rumori d’ambiente, ricreando il suo affresco corale americano tematico. American Geography esplora le pieghe più oscure di un’America multiforme e rende palese la varietà culturale, urbana e paesaggistica degli stati americani al cui interno l’indigenza e l’assenza di prospettive accomunano una fascia immensa di esseri umani che versano in condizioni drammaticamente simili, privi di prospettive. 

 

Foto 4. American Geography,Eagle Butte, South Dakota, Matt Black ©

 

CONFINI MATERIALI: STORIE DI MURI

Storicamente, le recinzioni dei campi agricoli sono la prima trasformazione del territorio per mano dell’uomo  mediante l’inserimento di linee invalicabili che delimitano la proprietà privata. Il bocage è un esempio di paesaggio rurale estremamente parcellizzato in cui le aree di terreno sono delimitate da alberi e siepi arborate; sono evidenti i risvolti culturali e localmente determinati, al pari dei muretti a secco in alcune regioni (non solo italiane).

 

Foto 5. Bocage

 

La nostra Storia è poi costellata di recinzioni, di fortificazioni murarie, di città murate circondate da fossati, con la nascita di Comuni, Regni e Stati nazionali, e via via lungo la linea del tempo fino alle odierne gated communities, vere e proprie cittadelle chiuse nei confronti dell’esterno per esigenze di autoprotezione ed esclusività.

I muri hanno una storia antichissima: la Grande Muraglia cinese è stata dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità nel 1987 ed è annoverata tra le Sette Meraviglie del Mondo moderno. È considerata meta turistica, e grazie a Airbnb ci si può soggiornare. Non dobbiamo però dimenticare che la Grande Muraglia cinese è stata costruita a partire dal 215 a.C. per arginare la pressione dei Barbari e tenerli fuori dalla Cina imperiale. Questa è una motivazione comune a molti muri nel mondo, eretti per fortificazione dei confini e per separarsi da qualcosa o da qualcuno.

 

Foto 6. Airbnb presso la Grande Muraglia Cinese

 

Secondo uno studio pubblicato nel 2020 dal Transnational Institute, almeno 6 persone su 10 vivono in un Paese con un muro di frontiera; la maggior parte delle nuove barriere è stata costruita nel nuovo Millennio.

Il Muro di Berlino ha segnato un’epoca e un immaginario; la nostra Europa si fregia del suo abbattimento come di un gesto di civiltà, finalmente possibile in regime di pace.

 

Foto 7. Il Muro di Berlino, Henri Cartier-Bresson, 1962 ©

 

Eppure, nella stessa Europa al pari di altre regioni del mondo, la prospettiva è inversa: i muri proliferano, vengono costruiti continuamente; sono tangibili, assertivi, al contempo fisici e simbolici.

IL MEDIORIENTE

Proprio il valore  – simbolico oltre che fisico –  del muro è stato indagato da Josef Koudelka in Shooting Holy Land, quella Terra Santa in cui il Muro (The Wall) tra israeliani e palestinesi diventa di per sé soggetto senza che l’autore indulga mai nel privilegiare le ragioni degli uni e degli altri. 

 

Foto 8. The Wall, il Muro tra Israele e Palestina, Joseph Koudelka, 2011 ©

 

L’esperienza della Cortina di Ferro ha lasciato una cicatrice profonda nell’animo di Koudelka, che ha dunque scelto una prospettiva personale: quella della rappresentazione della separazione in quanto tale, indipendentemente dalle opposte posizioni delle parti coinvolte. Il formato super-panoramico delle fotografie in bianco e nero di Koudelka, molto vincolante a livello di composizione, rappresenta una scelta tecnica funzionale alla narrazione: il muro tra i due popoli sembra prolungarsi all’infinito nello spazio, dividendo mondi fatti di persone e territori dall’identità chiara. Barriere, muri, filo spinato, tutto si dipana continuamente davanti ai nostri occhi comunicandoci un senso di sofferenza legata al peso della Storia. In circostanze così profondamente radicate, la separazione tra spazi e quella tra esseri umani è inflitta a tutti, indiscriminatamente.

OLTREOCEANO

Come è noto, il muro tra Messico e USA è stato oggetto di attenzione praticamente insaziabile per una moltitudine di fotografi. A parità di oggetto di trattazione, è interessante cogliere le differenze e le somiglianze tra sguardi e attitudini.

Carolyn Drake, fotografa della Magnum, punta ad esempio il suo obiettivo sull’essere umano che “tocca” almeno l’aria di un’America irraggiungibile al di là della barriera. La psicologia del gesto ci arriva come punctum ineludibile della fotografia: è la constatazione dell’impossibilità di varcare il confine e  insieme il desiderio riaffermato di raggiungere un’America come ipotetica Terra dell’Abbondanza che affranchi la propria esistenza dall’assenza certa di prospettive a casa propria. 

 

Foto 9. Muro USA-Messico, Carolyn Drake 2016 ©

 

John Moore, vincitore del World Press Photo 2019, ha invece privilegiato il muro come linea fortificata e militarizzata lungo la quale scorre geograficamente il territorio – a volte di bellezza folgorante – mentre cronologicamente si susseguono i drammi umani. L’umanità che insegue la promessa americana come sogno di futuro si affolla lungo il muro, tenta il tutto per tutto pur di varcarlo, e finisce di frequente per scontrarsi con le forze dell’ordine preposte al pattugliamento per impedire l’ingresso dei migranti. 

 

Foto 10. Muro USA-Messico, John Moore ©

 

Foto 11. Confine USA-Messico, John Moore, fotografia vincitrice del World Press Photo 2019 ©

 

A volte, lo stesso luogo di confine rivisitato da un fotografo si attualizza a causa dello scorrere del tempo che modifica non solo l’aspetto esteriore del territorio, ma le modalità stesse di rapportarsi con il confine. È il caso di Alex Webb, notissimo fotografo della Magnum Photos che si muove con naturalezza tra generi fotografici, mescolando il reportage a un approccio pur sempre documentario ma a tratti contiguo alla Street Photography, con una composizione sempre articolata su molti piani all’interno dell’immagine e un uso di quei colori vibranti e contrasti marcati che sono diventati la sua firma (e una delle cifre della sua estetica). Mettendo a confronto le sue fotografie scattate nel tempo al confine USA Messico, notiamo immediatamente il recente spostamento di attenzione sulla barriera come oggetto fisico ingombrante alla vista e soggetto delle immagini; malgrado lo slittamento di sguardo che ha mutato alcuni elementi della rappresentazione visiva, l’uomo continua a essere protagonista.

 

Foto 12. USA, San Ysidro, California, Mexicans arrested while trying to cross the border to United States, 1979, Alex Webb ©

 

Foto 13. Mexico,Playa de Tijuana, at the border fence, 1995, Alex Webb ©

 

DALLA PARTE OPPOSTA DEL MURO

Lo stesso muro tra Messico e USA si presta a un ribaltamento di prospettiva a seconda del lato da cui lo si fotografa: Griselda San Martin lo rappresenta come luogo di incontro necessario, facendo risaltare la socialità sia pure in regime di separazione. Un intero popolo di famiglie separate dal Muro si ritrova ritualmente presso il cosiddetto Friendship Park e si ricompone in uno pur rimanendo diviso dalla barriera. L’approccio della fotografa privilegia quei tratti del Muro USA Messico che sono stati ingentiliti dalla mano umana, luoghi di incontro, di aggregazione e di stazionamento, decorati e resi vividi e umani. Prevale il senso positivo di ricongiungimento per un’umanità divisa, motivata alla condivisione del tempo insieme in circostanze di separazione fisica. Le cromìe dei luoghi bizzarramente sembrano alleggerire parte del peso di cui il luogo e le persone sono sicuramente gravati.

 

Foto 14. Muro USA_Messico, Griselda San Martin ©

 

Foto 15. Muro USA_Messico, Griselda San Martin ©

 

Rafal Milach, altro fotografo della Magnum, amplia la sua ricerca creando una rappresentazione di più muri a confronto in vari continenti, raccontando il Muro tra USA e Messico, quello tra Ungheria e Serbia, e ciò che resta del Muro di Berlino oggi. Con un approccio estremamente contemporaneo, coniugando una fotografia di documentazione allo Still Life, Milach racconta i luoghi e le comunità ponendo in risalto le loro specificità: il Muro USA Messico è una presenza potentemente fisica; il Muro ungherese, elettrificato e protetto da filo spinato, mostra freddezza metallica nella sua esilità di struttura dai colori chiari; chiude, con senso di memoria necessaria, il Muro di Berlino, luogo di richiamo dal forte potere simbolico che appare in stridente contrasto con gli altri muri nel mondo, ancora esistenti o in via di costruzione e ampliamento, assertivi di valori opposti.

 

Foto 16. Muro USA-Messico, da I AM Warning You, Rafal Milach ©

 

Foto 17. Europa, da I Am Warning You,  Rafal Milach ©

 

I MURI NON SEPARANO SOLO GLI ESSERI UMANI

Ogni volta che l’uomo costruisce un muro, c’è una ricaduta negativa sull’ecosistema e sull’ambiente locale: è stato calcolato che ben 800 specie risentono in vario modo dell’esistenza del Muro tra Stati Uniti e Messico, per impossibilità a spostarsi sul territorio e a tornare in luoghi abituali, e per la distruzione parziale dell’habitat. Il fotografo Alejandro Prieto ha dedicato il suo Border Wall Project proprio all’indagine delle conseguenze del Muro sulle specie animali, suscitando riflessioni ulteriori e complementari rispetto alla più ampia rappresentazione delle vicende umane e dell’impatto dei muri sul territorio fisico e sul paesaggio.

 

Foto 18. Border Wall Project, Alejandro Prieto ©

 

Le considerazioni presenti, puramente iniziali, servono per valutare l’impianto progettuale adottato dai singoli grandi autori portati a esempio: una lezione di metodo e coerenza che può utilmente essere assimilata dai partecipanti ai LAB Di Cult e rielaborata all’interno dei progetti personali. Seguirà a breve una nuova parte, con ulteriori riflessioni.

Claudia Ioan, Direttrice Dipartimento Didattica, Co-Coordinatrice LAB Di Cult 124 e 125 FIAF

 

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