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Lavorare per vivere, morire per lavorare

Storie di infortunio sul lavoro - Giovanni Pappadà, Emilio Senesi

“… oggi ennesimo mortale incidente sul lavoro…”. Siamo ormai abituati, quasi assuefatti a questo genere notizie diffuse dai media. Si ha l’impressione che ogni vittima in più sia considerato un numero che alimenta le statistiche più che un individuo persona con la sua personalità e bagaglio di affetti. Uno strisciante pericolo di indifferenza al problema è in agguato.
Come reagire? Nasce così l’idea di un progetto fotografico su questo argomento. Analisi tecniche e suggerimenti normativi esulano dalle nostre competenze e finalità. Vogliamo contribuire a comunicare e sensibilizzare sul problema che ormai riveste le caratteristiche di vera e propria emergenza non solo italiana. Ci siamo quindi proposti di rendere per immagini quelle che possiamo definire storie di infortunio soffermandoci sulla personalità della vittima, l’ambiente di lavoro, gli attimi dell’infortunio e, quando possibile, come i familiari hanno affrontato il doloroso dopo infortunio.
Tra le tante storie di infortunio, abbiamo ricostruito 8 casi. La sfida è consistita nel riuscire a rendere con immagini l’attimo dell’incidente, a volte ricostruendone lo scenario, a volte usando materiale fornitoci dai tecnici preposti al sopralluogo, a volte, infine, utilizzando sia materiale d’archivio che nostri scatti. Ad esempio, abbiamo cercato di rendere la caduta da un ponteggio, la folgorazione da alta tensione, il robot che si rimette improvvisamente in moto.
In alcuni casi abbiamo utilizzato immagini, a volte anche estremamente crude, forniteci dai tecnici che avevano effettuato il sopralluogo (ovviamente non più soggette a restrizioni da indagini o procedure giudiziarie in corso), altre volte le immagini sono state ricostruite adottando una sorta di staged photography.
In due storie la collaborazione dei familiari ci ha permesso di utilizzare le immagini dell’album di famiglia per illustrare questo progetto: erano giovani, un brillante futuro davanti, allegri ed entusiasti, non ci sono più. Resta il ricordo, spesso straziante.
Il grave incidente sul lavoro può, a nostro avviso, essere considerato un confine astratto rappresentando uno spartiacque tra vita e morte e tra vita cosiddetta normale e vita da grande invalido

Il progetto “Storie di infortunio”

Il progetto “Storie di infortunio” nasce nel 2012 per rispondere al sentimento di sconforto ma, soprattutto alla necessità di comprendere cosa fosse andato storto in due gravi incidenti accaduti alcuni anni prima: il rogo alla Thyssen-Krupp di Torino e l’esplosione presso il Molino Cordero di Fossano.

Gli operatori dei Servizi di Prevenzione e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro (PreSAL) delle ASL piemontesi hanno dato vita al progetto, insieme al Centro di Documentazione per la Promozione della Salute e al Servizio di Epidemiologia della Regione Piemonte.

Per comprendere era necessario che i faldoni delle inchieste infortunio uscissero dai cassetti e divenissero patrimonio comune e che ogni infortunio, al pari di un caso clinico, fosse trattato come un caso su cui il gruppo di pari, la comunità degli operatori dei Servizi PreSAL, potesse elaborare e discutere strategie preventive.

Le inchieste sono, dunque, trasformate in storie caratterizzate dagli elementi della narrazione e costitutivi di un racconto: ambientazione, personaggi, sequenza delle azioni, “morale della favola”. Ogni storia racconta un infortunio e include un paragrafo intitolato “non sarebbe successo se…” in cui l’autore descrive le azioni che si sarebbero dovute intraprendere per far sì che l’infortunio non accadesse. Ma le sue indicazioni possono essere migliorate se condivise in un gruppo di pari e, soprattutto, diventare patrimonio comune di conoscenza.

Dalle “Storie di infortunio” alla “Comunità di Pratica”

La “Comunità di Pratica” è il luogo in cui ogni storia è analizzata e discussa dal gruppo degli operatori dei Servizi PreSAL, in cui ognuno impara dall’esperienza degli altri e si mette in gioco condividendo anche i propri dubbi. È un nuovo modo di fare prevenzione a partire da una saggezza antica, il racconto e la condivisione delle conoscenze, delle competenze, dei saperi taciti, di tutto ciò che non è regolato da leggi e da manuali ma che nasce dall’esperienza e dal patrimonio informativo di ciascuno.

Le storie, quasi un centinaio, sono raccolte in un repertorio disponibile ad accesso libero sul web: https://www.storiedinfortunio.dors.it/

“A l’è ‘ndame bin”

(Mi è andata bene)

Paolo, piccolo possidente agricolo del cuneese, 60 anni

“E poi si dice la bellezza della campagna, verde, quiete, ampi spazi. Osservazioni da abitanti di città.  Io in campagna ci lavoro duramente e   per lavorare si usano macchine pericolose.

Nessuno mi aveva mai spiegato che per pulire e manutenere una rotoimballatrice bisogna che sia distaccata dalla forza motrice fornita dal trattore.  Però, si perde meno tempo a pulire se gli ingranaggi sono in movimento.  C’erano dei grumi di erba sul rullo più in alto, mi sono arrampicato sulla macchina per raggiungerlo….. Un lembo della tuta è finito tra gli ingranaggi.

Non ho più un braccio, ma almeno sono vivo.”

Dall’azzurro al grigio

Alecu, 55 anni

Il ponteggio non era neanche tanto alto ed il lavoro era quasi terminato. Stavamo già andando via,  ho voluto controllare l’argano che sollevava il materiale posto in cima all’impalcatura, si era alzato un vento molto forte.  Dovevo rimettermi l’imbragatura di sicurezza?  No dai, non era necessario, era un lavoro di un minuto! Sono inciampato su un attrezzo lasciato sulla passerella.

E’ stato un attimo, per una frazione di secondo ho visto azzurro.

Fili nella notte

Ugo, 24 anni

“E’ una fredda e buia notte di gennaio. In Valtellina, dove coltivo e vendo ortaggi e sementi, in inverno non lavoro, così per guadagnare qualcosa sono venuto qui con altri colleghi per posizionare i new jersey, quei grandi blocchi di cemento, nella realizzazione della quarta corsia dell’autostrada A4. Siamo allo svincolo di Dalmine, fermo il camion carico di new jersey da scaricare nella notte per costruire delle barriere provvisorie tra le carreggiate.

Lo svincolo è chiuso ma l’autostrada deve riaprire al mattino, dobbiamo fare in fretta, i blocchi sono tanti, c’è una fila di camion fermi e c’è una sola gru.

Un lavoro da fare presto e bene, tutti vogliono tornare a casa il prima possibile. Al buio, chi pensa a quei fili della linea ad alta tensione lassù, a dieci metri da terra? Chi deve avvisare chi del pericolo, avvertire di non avvicinarsi ai fili? E come farlo concretamente, magari organizzando un breve incontro all’aperto, al buio al freddo di una notte di gennaio?

Vado sul pianale del camion per afferrare i cavi d’acciaio che il gruista cala a piombo con la gru. Afferro i cavi e tento di imbragare il primo new jersey, ma il gruista sposta leggermente il braccio della gru. La gru tocca i fili e scocca una scintilla. Sento la scossa e poi più niente.”

Decesso per arresto cardiaco irreversibile riporta il referto medico.

L’area di lavoro è poco illuminata, non sono presenti mezzi di illuminazione supplementare, come per esempio un faro, utilizzato dal tecnico dell’Enel chiamato a intervenire solo dopo l’incidente. Nessuna misura preventiva era stata attuata prima dell’infortunio. Solo dopo l’incidente era intervenuto il tecnico ENEL che ha provveduto a togliere corrente alla linea e a riattivarla dopo il completamento dei lavori.

La giostra degli appalti

Mattia 23 anni

“Sopralluogo nel cantiere aperto da poco.  Ci sono ditte subappaltatrici.  Il gruista è stato appena  sostituito.  Un’altra ditta ha proceduto al montaggio della gru.  Il rullo all’estremità del braccio della gru su cui scorre il cavo portante non è stato montato correttamente: manca il fermo.

Comincio a familiarizzare con l’area del cantiere, il gruista inizia lo stesso a spostare i carichi nonostante la mia presenza.

Il rullo si stacca, il cavo portante si abbatte al suolo con il suo carico che mi colpisce da dietro.”

Appalto, sub-appalto, sub-sub-appalto, personale non adeguatamente addestrato, tutto ciò ha contribuito a generare le condizioni perché si verificasse l’incidente mortale.

Un lucernario occultato, incoscienza, incuria

Lisa Picozzi 31 anni – Ingegnere edile e pallavolista professionista

“Avevo appena finito di controllare il completamento dei lavori di installazione delle centrali fotovoltaiche che ho personalmente progettato e seguito due mesi fa, quando mi arriva una telefonata dall’ufficio. Mi chiedono di fermarmi a Tricase, per effettuare un sopralluogo tecnico sulla superficie di un edificio industriale dismesso e valutare la fattibilità di un impianto fotovoltaico. Ricordo di aver visto la corrispondenza e la documentazione relativa.

Arrivata al capannone, salgo rapidamente sul tetto.  Non ci sono indicazioni di percorsi di sicurezza, né segnalazioni di pericoli, nessuno mi accompagna, la lastra in fibrocemento che ricopre la superficie è spezzata in diversi punti; altre persone l’hanno già calpestata.

Effettuo i rilievi sull’inclinazione dei raggi solari, prendo le misure necessarie e mi avvio alla scaletta per scendere. Sono quasi arrivata, quando mi sento sprofondare. Non capisco cosa stia succedendo.

Come potevo immaginare che  quella lastra occultasse un lucernario in plexiglas, capace di reggere un peso di soli venti chili? Un lucernario non protetto, a norma di Legge, da una rete in ferro anti caduta, non presente sulle planimetrie che avevo visionato e non segnalato. Il volo è stato di sette metri.

Mi sento quasi in colpa, ma non l’ho scelto io, non so chi ha deciso, né perché, di mettermi le ali e farmi volare tanto in alto.  Stavo facendo il mio lavoro scrupolosamente e, senza accorgermene, mi sono trovata catapultata in un mondo così lontano, così diverso, un mondo senza la mia mamma.”

L’orditoio killer

Valeria, 58 anni

“Sono un’operaia esperta, mi sono accorta che i sistemi di sicurezza dell’orditoio a cui lavoro sono stati manomessi per velocizzare il lavoro, ma cosa mai potrà succedermi?

Conosco bene il mio lavoro. L’orditoio lavora con filati delicati, sembra una macchina precisa che produce manufatti eleganti spesso preziosi, ma guardate le cinghie di trasmissione del rullo: trasmettono una forza tremenda.

Mi sembrava che qualcosa non andasse nel processo di orditura, è stato un attimo, mi sono avvicinata troppo, la barriera di protezione era stata disattivata come pure la fotocellula che fermava la macchina se l’addetto si avvicinava troppo.

E’ stato un attimo, il rullo mi ha ghermito. “

Come prevenire.

  • predisporre protezioni alle parti delle macchine in cui si trovano organi in movimento;
  • effettuare corsi di formazione per l’addestramento dei lavoratori al fine di consentire lo svolgimento del lavoro in sicurezza;
  • predisporre un Documento di Valutazione dei Rischi che comprenda tutte le mansioni e le attrezzature dell’azienda.

Magazzino 2.0

Anche l’automazione cela pericoli

Giuseppe 41 anni manutentore di carri AGV (automated guided vehicles).

Il magazzino dell’industria tessile è composto da tre lunghi corridoi dove sono posizionati gli scaffali.  Due corridoi di servizio uniscono i tre corridoi principali. I carri  AGV sono alimentati da batteria ricaricabile e azionati elettromagneticamente dal software dell’impianto che trasmette i comandi attraverso binari annegati nel pavimento del magazzino.  I reparti produzione o spedizione trasmettono al carro la “missione” che esegue prelevando o deponendo le pezze negli scaffali mediante i suoi bracci meccanici.

“Uno dei carri robot è andato in blocco a livello di uno dei corridoi di congiunzione.  Per terminare la manutenzione salgo sulla sommità del carro ed inizio la verifica finale utilizzando l’oscilloscopio.  Tutto ripristinato, sono quasi fuori dal magazzino quando mi accorgo di aver lasciato lo strumento sulla sommità del carro.  Torno indietro e mi arrampico, avrei dovuto salire dall’altra parte, lì il carico sulla pedana disattiva il movimento del robot.  Avevo fretta, e poi conosco queste macchine come le mie tasche.

Nello stesso istante la produzione comanda una “missione” al robot che, ritornato operativo,  si mette in moto per compierla. io sono spalle rispetto al senso di marcia del carro.   Scenderò quando il carro si fermerà.   Non mi accorgo che il carro con me sulla sommità viaggia verso una trave che ribassa di molto il soffitto del magazzino.”

Il magazzino doveva essere dotato di un dispositivo di disattivazione automatica dei robot qualora venga  rilevata presenza umana all’interno dell’area di movimento dei carri.

Un caffè sospeso

Massimo, 51 anni.

“Lo so, ho un carattere difficile, faccio molta fatica a relazionarmi con i colleghi di lavoro.  Per questo mi cambiano spesso mansione.  Adesso sono addetto al lavaggio vasche, sono da solo, all’aperto, sul piazzale della ditta.  Non ho contatti con gli altri operai.  L’ambiente intorno è degradato, è tutto sporco, in disordine.  Le misure di sicurezza approssimative ed inadeguate.  Però, lì fuori, da solo, sono più a mio agio. Anche i rapporti con i colleghi adesso sono migliorati, mi aspettano sempre per la pausa caffè.  Un giorno non mi hanno visto arrivare, sono venuti a cercarmi e mi hanno trovato riverso su una delle vasche che stavo pulendo. Ho inalato cloruro di etilene, non so neanche cosa sia e quanto possa essere letale.”

Almeno l’incidente è servito a qualcosa, adesso tutto è in ordine ed indicato con precisione.  Le misure di protezione adeguate.  Il personale è stato formato correttamente.  Peccato non lavorarci più.

La storia di Massimo è tragicamente emblematica di come un ambiente di lavoro trascurato, per nulla manutenuto, con presidi di sicurezza inadeguati e nulla formazione antiinfortunistica possa favorire infortuni sul lavoro anche mortali.  Le immagini, fornite dal servizio SPRESAL della ASL di Alessandria, sono state selezionate e assemblate in dittici per mostrare l’ambiente di lavoro prima e dopo l’infortunio, quanto inadeguati fossero i presidi in uso e come invece avrebbero dovuto essere (maschere e guanti, supporti per inclinare le vasche da pulire onde evitare che l’addetto alla pulitura dovesse chinarsi sul fondo della vasca stessa).

“Caffè sospeso” fa parte di un progetto più ampio che riunisce 8 casi dei quali sono ricostruite le dinamiche tramite immagini provenienti da archivi giudiziari e foto scattate da noi per simboleggiare l’incidente.

 Giovanni Pappadà/Emilio Senesi   Circolo Fotografico Milanese 

M.Libener/M Biumini  SPRESAL ASL Alessandria.

 

Ringraziamenti

Ringraziamo per il materiale fornito e i fondamentali consigli e suggerimenti:

  • Sezione di Epidemiologia ASL-TO 3
  • Giampiero Bondonno/ Savina Fariello – Spresal Biella
  • Giovanni Debernardi/Marco Olocco – Spresal Cuneo
  • Francesco Sarnataro – Bergamo
  • Marcello Libener – Spresal Alessandria
  • Maria Anna Viscardi, mamma di Lisa
  • Monica Michielin, mamma di Mattia
  • Carlo Soricelli – Osservatorio Nazionale sugli Infortuni sul Lavoro

Senza la loro collaborazione ed il loro contributo, il progetto non avrebbe potuto essere sviluppato.

 

 

 

 

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