INTERVISTA AD ANTONIO PIGNATO
Immaginate un giorno che il governo italiano decida di limitare la circolazione dei cittadini nello Stato, se non per casi di estrema necessità e urgenza. Ed imponga di studiare e lavorare in smart working. Non è distopia, è semplicemente storia contemporanea. È quello che è accaduto nel 2020 in Italia a causa della pandemia COVID 19. Una misura restrittiva che ha impedito a molti artisti di organizzare mostre ed eventi; ma questo non ha impedito ai fotografi di fantasticare con la propria mente e realizzare nuovi modi di raccontare la realtà.
È quello che ha fatto il giovane Antonio Pignato realizzando il progetto fotografico Peripherical Maps: uno storytelling su romiti angoli urbani, spazi pubblici quasi privati, catturati attraverso l’occhio bionico della Google Car. L’autore non potendo uscire, decide di usare Google Maps come macchina fotografica alternativa per raccontare gli spazi urbani che lo circondano, senza il timore di essere notato.
Antonio Pignato a tal proposito spiega: “ Si crede di conoscere il posto in cui si vive, finché non ci si perde nelle grandi periferie sub-urbane, dove l’abitato è in continua ebollizione e tende come un magma a divorare costantemente nuove zone limitrofe. È in questo habitat che proliferano l’ordine delle villette a schiera e il disordine dell’estrosa quanto dubbia estetica, l’incompiuto e il distrutto, le ampie strade desolate ed i silenzi visivi. Si naviga in panorami urbani inediti, che su permesso di Google, ho impresso e raccolto in istantanee.
Antonio Pignato nato nel 1976 a Gela, vive attualmente a Catania. Laureato in Economia, decide di imbarcarsi nel lungo cammino della ricerca fotografica che lo porta ad esporre al Centro Internazionale di Fotografia di Palermo con Letizia Battaglia, a Camera, Centro italiano della fotografia di Torino e in varie altre città della penisola.
Conosciamolo più da vicino con una breve intervista.
Come ti sei avvicinato alla fotografia?
Fin da bambino sono sempre stato attratto dalle arti visive, sfogliavo gli album di famiglia con interesse, immaginando il destino di quei personaggi.
Papà è sempre stato appassionato di fotografia, possedeva diverse reflex e spesso trascorrevamo le serate a proiettare le diapositive dei nostri viaggi. A volte il bagno di casa si trasformava in una camera oscura dove, sotto una fioca lampada rossa, avveniva la magia dello sviluppo.
Dal canto mio, andavo alle gite scolastiche con quelle macchine automatiche mira e scatta, a cominciare da una mitica kodak Instamatic.
Tuttavia la passione si è riaccesa di recente, nel 2018, frequentando un corso di fotografia.
Perché hai scelto la Street photography come linguaggio visivo?
La strada è il luogo naturale in cui ho trascorso la mia infanzia. Si incontrano persone, si incrociano storie, si intraprendono percorsi. Tutto è così avvincente e inaspettato e permette di fare una notevole esperienza. Sei soggetto al mutare del clima e della luce, sai bene che un’immagine non sarà mai la stessa dopo qualche attimo. Allora anche il linguaggio visivo viene stimolato e si arricchisce.
In realtà non ho scelto un genere a priori, ma solo a posteriori reputi che le tue immagini possano aderire più a un genere piuttosto che ad un altro. Credo però che le contaminazioni tra i generi possano arricchire l’esperienza di un fotografo. Quindi nei miei scatti “per strada” entrano il ritratto, lo still-life, il paesaggio.
Nei tempi recenti peraltro la Street photograhy ha assunto caratteri sempre più estetizzanti, mentre per me di un’immagine resta prevalente il senso.
Quando è importante studiare, guardare le mostre e confrontarsi con gli altri fotografi?
Dobbiamo studiare gli altri fotografi non tanto per copiarli, quanto per nutrirci di essi. In particolare i grandi fotografi come Evans, Cartier-Bresson, Doisneau, Frank, Koudelka, Ghirri. Ma è importante anche ammirare le grandi opere d’arte, dalla pittura classica alle nuove arti visive.
Devo il mio amore per il bianco e nero ai capolavori cinematografici di Ingmar Bergman.
Raccontami del tuo incontro con Letizia Battaglia. Cosa ti ha trasmesso?
Ho conosciuto Letizia Battaglia nel 2021 ad Agrigento, si presentava “La mia Battaglia” di Franco Maresco. Gli chiesi se potessi scattagli un ritratto e mi disse: “Sì, però devi avvicinarti”. Ecco, Letizia pretendeva che si arrivasse vicino alle storie, desiderava che ne fossimo travolti.
Da allora ho lasciato lo zoom nella mia borsa degli obiettivi e ho iniziato a girare con un 35 millimetri.
Ho avuto poi la fortuna di partecipare ad uno degli ultimi workshop che ha tenuto presso il Centro Internazionale di Fotografia, da lei fondato a Palermo.
“Dovete amare ciò che fotografate” è l’insegnamento indelebile che mi ha lasciato.
Quanto è importante viaggiare con la mente per un fotografo?
Si può viaggiare con la mente prima dello scatto, ascoltando e leggendo le storie che più ci incuriosiscono ed entusiasmano e su cui inventiamo i nostri progetti, ma anche dopo, quando riguardando i nostri scatti a distanza di tempo ci riempiranno di ricordi.
La mente si muove sulle nostre gambe, è vero, ma non è necessario allontanarsi fino a raggiungere luoghi esotici. Anche nei dintorni di casa possono aspettarci immagini straordinarie, come ci insegna Ghirri, è un discorso di osservazione.
Allenare la nostra vista e la nostra sensibilità ci fa viaggiare ancora più lontano di quanto potremmo fare solo con le gambe.
In fin dei conti, le immagini a cui più restiamo legati sono quelle che scattiamo alle persone e luoghi a noi più prossimi, ai nostri familiari ed a coloro che amiamo.
Cosa diresti a un principiante della fotografia?
Gli darei tre consigli.
Primo, di leggere i classici della narrativa, ascoltare buona musica, guardare buoni film, viaggiare quando possibile… Tutto questo formerà quella cultura utile a vedere oltre il mirino.
Secondo, piuttosto che manuali tecnici, investire in libri fotografici di qualità per studiare la composizione e la narrazione dei grandi maestri.
Terzo, scattare molto!
Testo di Giuseppe Calascibetta (#fiaferssicilia)
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