Vi propongo una intervista fatta a Claudio Palmisano. Per chi non lo conoscesse Claudio è uno dei migliori post-produttori fotografici di riferimento nel panorama editoriale internazionale. Nel corso degli anni ha post prodotto le immagini dei più grandi della fotografia, come James Nachtway e Juri Kozirev, pluripremiati al prestigioso World Press Photo. Ve ne parlo e lo propongo perché ho avuto modo di conoscerlo ed apprezzarlo moltissimo. (Di ritorno da un viaggio in Brasile mi sono rivolta a lui per l’elaborazione dei miei scatti. Alla consegna con gran stupore nelle mie foto sono riemerse le luci e i dettagli che nel digitale erano scomparsi!!! ) Dopo aver lavorato come foto-giornalista per diverse testate nazionali ed internazionali come “The New York Times”, “International Herald Tribune”, “Paris Match”, “L’Espresso” e “The National Geographic Magazine”, preso dal “demone dell’informatica e della tecnologia “ , diventa consulente di diversi fotografi e lavora come post-produttore specializzandosi nella fotografia editoriale di reportage. Lavoro che svolge a Roma ma anche da una quindicina di anni nell’isola di Linosa perché come lui racconta “ è preferibile fare un lavoro massacrante in un luogo meraviglioso dove la natura e l’atmosfera ti ammaliano”.
Dal 1999 è tra i docenti dell’istituto superiore di fotografia.
Claudio, da anni dedito alla fotografia marina, sta collaborando ad un grande progetto sulla migrazione della balenottera comune nel Mar Mediterraneo e spesso opera come fotografo subacqueo per la Guardia costiera italiana.E’ uno dei pochi che ha scattato fotografie a delle balenottere, le più difficili da fotografare in quanto non amano uscire dall’acqua, non si vedono mai, si muovono alla velocità di 40 km/h e possono immergersi fino ad una profondità di 400 metri. Le insegue da anni nel mar Mediterraneo. Le bellissime panoramiche dei numerosi fondali del mar mediterraneo sono il frutto di numerose riprese da vicino assemblate in fase di stampa, altrimenti impossibili in quanto la visibilità nei mari, come tutti sanno, è scarsissima.
A Zagabria nell’ambito della iniziativa ‘Una vita – Mostra Internazionale di fotografia subaquea’ è stata realizzata una sua mostra fotografica sui fondali vicini all’isola di Linosa. Immaginate che le foto panoramiche esposte erano di dimensioni da 1 metro per 3 metri fino alla più grande di 1 metro per 7 metri.
1. LIliana Passiamo all’intervista Vorrei che esprimessi un tuo parere riguardo ad un argomento ormai mondiale attinente l’Intelligenza Artificiale. Sono plausibili le preoccupazioni che alcuni nutrono riguardo all’alterazione della realtà e compromissione dell’autenticità dell’arte fotografica ad opera dell’Intelligenza Artificiale? (So già che mi risponderai che la fotografia in sé non è la realtà, al massimo si può provare a rappresentarne solo una piccola porzione).
Claudio: E si vede che mi conosci
Oltre al fatto che recentemente si fa un uso piuttosto eccessivo della parola “intelligenza artificiale”, come se rappresentasse un’entità astratta destinata a prendere il controllo dell’umanità e quindi da temere, dovremmo considerare che gli algoritmi capaci di simulare comportamenti umani e i software in grado di sintetizzare immagini non sono affatto una novità e anzi risultano fondamentali nelle nostre vite.
L’AI, nel campo della fotografia, la usiamo per riconoscere e classificare un file, restaurare, eliminare rumore, generare una selezione, matchare dei colori, ma anche per riconoscere immagini manipolate, falsificate o generate dall’AI stessa.
Ma quello di cui probabilmente mi chiedi e’ il cosiddetto “prompt to image”, cioè la possibilità di generare un’immagine partendo da un input di testo scritto utilizzando una rete neurale, come GAN, GPT o Stable Diffusion. Come dicevo, generare immagini digitali di altissima qualità, volendo anche simili ad un fotografia, non e’ una novità, basti pensare a tutto il cinema di Hollywood degli ultimi 20 anni, agli effetti speciali, i videogiochi, tutta l’arte 3D iperrealista e, se vogliamo rimanere nel fotogiornalismo, mi viene in mente il lavoro provocatorio di Bendiksen del 2019.
Quello che e’ cambiato, con i sistemi di text to image, e’ che la generazione dell’immagine non si basa sulla cultura, la “visione”, l’intuizione di un un autore o di un gruppo di artisti, ma sull’analisi e il confronto di enormi database di immagini, potenzialmente tutte le foto del mondo presenti in rete, le stesse immagini che noi esseri umani abbiamo generato e di cui fruiamo e che sono servite ad addestrare enormi modelli di reti neurali. La fotografia AI, sintografia, GAN, chiamiamola come ci pare, è quindi una sorta di grande coscienza collettiva visiva, la media di tutto, lo stereotipo per eccellenza. Io questo lo trovo molto affascinante, uno specchio automatico a nostra disposizione, dove come sempre proviamo a cercare noi stessi, ma troviamo solo qualcosa che abbiamo già visto, un riassunto un po’ banalotto, almeno per ora, della creatività e del pensiero umano. In fondo non e’ cosi diverso da molta fotografia.
2. Ritieni che la convocazione di un comitato di esperti da parte del governo sia sufficiente per disciplinare questa materia?
Claudio: Ci sono sicuramente molte questioni da disciplinare, prima di tutte quella sul copyright delle immagini usate per addestrare i modelli.
La materia si evolve, molto più velocemente di qualsiasi comitato ed ogni volta che qualcuno ha provato a definire delle regole, etiche o morali, attraverso parametri tecnici, le cose sono finite male.
Sara’ solo la nostra coscienza individuale e collettiva, le nostre ambizioni, che definiranno quello che succederà ma non attribuirei tutte queste responsabilità ad uno strumento che, anzi, ha il merito di essere diventato cosi popolare inducendoci a riflettere sulla potenza e i limiti della comunicazione, compresa quella visiva. Il tema secondo me non sara’ riconoscere se un immagine é una foto, un’olografia, una rappresentazione virtuale, magari generata con l’aiuto dall’ai o chissà quale altra meravigliosa tecnologia del futuro, ma piuttosto addestrare la nostra capacità analitica e critica per capire chi ci sta dicendo qualcosa e perché. Il concetto di fiducia assumerà un ruolo ancor più rilevante: la fiducia nell’autore, nella fonte di informazione. In un’epoca in cui le notizie ci raggiungono attraverso i feed dei social network, l’unico vero rifugio sarà appassionarsi e studiare.
E certamente non sarà un bollino o un firmware anti falsificazione di una macchina fotografica a risolvere il problema.
3. Di fronte all’accelerazione tecnologica l’IA arriverà a produrre immagini che non richiedano un lavoro di elaborazione?
Claudio: Se intendi dire che l’ai “elaborerà” le foto per noi, beh, questo già accade da molto tempo, ed e’ quello che ripeto da altrettanto.
E il paradosso delle regole dei “comitati di esperti”, almeno nel fotogiornalismo, l’idea di NON elaborare le foto, cade proprio in questo tranello.
Ogni volta che scattiamo una foto con una fotocamera, ma ancora di più con un cellulare, un drone, una camera vr e “vediamo” quella foto istantaneamente su un display, stiamo vedendo un interpretazione, fatta da qualcun altro.
Il vero gesto eroico, autoriale, e quindi “onesto” é comprendere la natura ambigua ed interpretativa della rappresentazione fotografica e deciderne noi il percorso.
4. Annie Leibovitz, famosa fotografa, ultimamente ha detto che l’IA rappresenta un’opportunità per esplorare nuovi orizzonti creativi anzi ritiene che possa diventare uno strumento a disposizione dei professionisti.
Claudio: Beh, sicuramente e’ uno strumento affascinante.E’ come poter accedere ad un mega archivio di foto mai fatte, poterle mettere insieme, scoprire che ne viene fuori.
Per “normalizzare”, togliere difetti, ricostruire fondali e’ lo strumento perfetto, ma, se l’uomo smettesse di produrre, arte, immagini, fotografie, poesia, l’ai non avrebbe di che alimentarsi e presto perderebbe il suo fascino.
5. I detrattori della fotografia digitale puntano il dito sul fotoritocco, come vera piaga della fotografia contemporanea, dimenticando però che anche nell’era della fotografia analogica il foto-ritocco era utilizzato regolarmente. Sarà pure una domanda ricorrente ma utile a ribadire il tuo pensiero.
Claudio: Guarda, non so più nemmeno cosa vuol dire fotoritocco. Fotomontaggio ? Modifica del contenuto dell’immagine ? “Modifica” dei colori, della luminosità, del contrasto ? Una volta, e tu con la tua domanda lo ricordi, si facevano paragoni tra pellicola e digitale. Ora bisognerebbe farli tra macchine fotografiche diverse ? Sensori ? Firmware ? Software di elaborazione ? Riconoscono cibo, tramonti, sport, animali domestici… e decidono impostazioni di ripresa e di post-produzione. Alcuni cellulari, ma anche fotocamere, scelgono autonomamente, in una foto di gruppo, i visi migliori e li assemblano in un’unica immagine. Sono nuovi strumenti, automatismi che possiamo usare o meno. Non e’ più fotografia ? E quale e’ il limite ? l’autofocus ? l’esposizione automatica ?
Per alcuni la fotografia e’ solo quella analogica. Ma anche li, tra pellicola, carta, sviluppo, contrasti, temperature, diluizioni, viraggi, non e’ che sia molto diverso.
E’ inevitabile, sono tutte scelte, che dobbiamo per forza prendere. Possiamo decidere di farle noi, oppure affidarci ad un sistema automatico, che le fa per noi, creato da altri per inseguire le nostre esigenze ma soprattutto quelle di mercato.
Qualsiasi innovazione trova sempre detrattori, ma il gioco del “prima le cose erano meglio” non ha mai senso. Questa ricerca della “purezza” fotografica e’ un ossessione inutile, i mezzi cambiano e cambiano le nostre aspettative.
La diapositiva Kodachrome che solo 50 anni fa ci dava la sensazione di rappresentare contrasti e colori nel modo piu reale possibile, oggi, di fronte ad un sensore con 20 stop di latitudine, magari stereoscopico, sembra una rappresentazione pittorica, irreale.
Dando per assodato quindi, che la post-produzione, e’ un meccanismo insito nella produzione di immagini, che sia chimico come con le pellicole, elettronico, semi automatico, automatico o guidato dall’intelligenza artificiale, forse, la cosa piu onesta che possiamo fare e’ averne il piu possibile il controllo.
Quello che conta, come ripeto da anni, sono le premesse, le aspettative, il patto che si fa con chi fruisce delle immagini.
Negare le scelte di post-produzione, significa negare l’autorialità ed attribuire alla fotografia il valore di uno strumento sopra le parti, in grado di restituire la “realtà” nella sua essenza. Questo non solo e’ impossibile, ma non ha nessun senso. E’ una contraddizione amare un fotografo, una fotografia, un libro, un reportage, se non abbiamo la coscienza che quelle immagini ci piacciono in quanto frutto dell’elaborazione di un pensiero, di scelte, di decisioni, di cosa includere e cosa escludere nel fotogramma.
Non e’ certo lo strumento che mente, o meglio, probabilmente la fotografia mente SEMPRE. Voglio farti un esempio , visto che citi i miei panorami subacquei, di come le cose possono essere l’opposto dell’immaginario, dell’assioma post produzione = modifica della “realtà” = menzogna. Sott’acqua la visibilità e’ limitata, l’acqua e’ molto più opaca dell’aria e vedere una catena montuosa o un elemento molto grande, e’ impossibile. Ma se io fotografo, pezzo per pezzo, da vicino, tutta la mia montagna e poi unisco i pezzi, posso vederla intera. Ho costruito così un immagine con la post produzione, di un elemento impossibile da vedere, ma che in realtà esiste.
Lo stesso si potrebbe dire di immagini stroboscopiche, astronomiche, macro, mosse, tempi lunghi, lunghissimi, timelapse. Tutte rappresentazioni di qualcosa che esiste, ma che l’uomo, con gli occhi, non può vedere.
6. Il fotoritocco può essere una forma d’espressione artistica in sé?
Claudio: Naturalmente. Qualsiasi scelta può essere un espressione artistica. Anche solo decidere di scattare una foto. Figuriamoci decidere contrasti, colori o ancora meglio di unire più fotogrammi o cancellare ed aggiungere qualcosa.
7. Ci puoi illustrare il tuo lavoro ed il rapporto di collaborazione che instauri con l’autore delle foto che ti accingi a post produrre.
Claudio: La tecnologia, il software i sistemi di comunicazione sono profondamente cambiati, ma i rapporti no. Anzi, direi che la qualità dei rapporti e’ diventata la cosa più importante. Un software può facilmente correggere difetti, fare selezioni perfette, aggiustare esposizioni, correggere dominanti cromatiche, ma senza un progetto, un idea visuale, si possono solo ripetere cose già fatte. Ormai lavoro con alcuni fotografi da più di 20 anni, siamo dipendenti l’uno dall’altro, parliamo di progetti, di viaggi, di futuro… non e’ nemmeno necessario entrare nello specifico dell’estetica. Ci siamo evoluti insieme, le macchine fotografiche, il software, noi stessi. Con alcuni sperimentiamo, altri cercano invece solo rassicurazioni, altri ancora vorrebbero solo che le loro foto avessero il look di quel fotografo famoso. L’errore più grave. Di nuovo la negazione della propria autorialità.
8. Qual è per te il confine etico, il limite dell’intervento nella post produzione?
Claudio: Come dicevo prima, a mio parere si tratta di un patto tra fotografo e spettatore. Lì si definisce il limite. Nel fotogiornalismo, la fotografia di documentazione, la fotografia scientifica, alcuni patti sono impliciti e la testata, l’ente scientifico dovrebbero fare da garante. E’ sempre complicato definire un confine tecnico e parlare di strumenti, misure, quantità, ha davvero poco senso.
Il rischio e’ che definendo dei limiti strumentali e verificandone l’applicazione, si perda di vista il quadro completo. Se una foto non ha un fotomontaggio non e’ necessariamente una foto onesta. Inoltre in qualsiasi altro campo comunicativo, artistico, narrativo, pubblicitario, non vedo perché la post produzione dovrebbe avere limiti imposti da qualcuno che non e’ l’autore.
Se Spielberg in un film in bianco e nero sull’olocausto all’improvviso fa apparire un vestito rosso, nessuno penserebbe che non e’ etico.
9. La post produzione è parte considerevole del risultato finale di un’immagine fotografica. Però non viene quasi mai dichiarato il contributo di chi fa questo lavoro.
Claudio: Questo in realtà accade sopratutto nel mondo del fotogiornalismo che si e’ sempre alimentato del mito del fotografo solitario con la sua Leica in spalla, quando in realtà sappiamo tutti che un buon lavoro e’ fatto da una redazione, un photoeditor, un fotografo, un fixer, un postproduttore, uno stampatore, un grafico, un tipografo e sopratutto da un “fotografato” e uno “spettatore”, testa e coda di una catena.
In altre forme di comunicazione, il retoucher nella pubblicità o la moda, il vfx artist se parliamo di cinema, sono spesso super star.
Intervista di Liliana RANALLETTA
Per conoscere più approfonditamente il lavoro di Claudio Palmisano