Quando ho pensato di fare un’intervista a Dario Coletti, non volevo presentare il fotografo che tutti conoscono ma proporvi alcuni aspetti del suo lavoro meno palesi o presentare i suoi lavori che fossero più vicini alla mia esperienza fotografica e sondare i suoi sentimenti attinenti alcune problematiche attuali.
Liliana: Quando ti ho chiesto di inviarmi foto attinenti la Streetphotography, sono riemerse molte immagini dal tuo archivio, lasciate lì a sedimentare, quasi dimenticate. Come varia la visione nel tempo?
Dario: Per ogni professionista il tema dell’archivio è una questione centrale, l’archivio racchiude la memoria del percorso di un fotografo ed è contemporaneamente un pezzo, più o meno grande, di storia del mondo; è un’entità pulsante che va curata attraverso il rispetto della cronologia e con puntuali annotazioni riguardanti persone, luoghi e situazioni. È inoltre importante riportare in modo coordinato appunti sullo stato d’animo del fotografo che possono riguardare un singolo fotogramma o una sessione di lavoro.
Questa pratica mi ha permesso, ad esempio, di raccogliere una ventina di immagini/racconti che sono stati il cuore del libro “Il fotografo e lo sciamano, dialoghi da un metro all’infinito” (Postcart 2013) dove il connubio tra immagine e note raccolte nel tempo e nel contesto specifico hanno dato origine ad una serie di racconti, ad una formalizzazione della memoria. L’archivio va frequentato nel tempo perché è un organismo che muta con la crescita del professionista e dell’uomo, dove a distanza di tempo continua a suggerire nuove inquadrature, forme, storie e percorsi. È così che a partire dallo stesso corpo di immagini è possibile prefigurare una selezione diversa a seconda del tempo interiore del fotografo, della sua maturazione umana e professionale; questo fa sì che alcune immagini scelte in un primo tempo possano essere accantonate in un secondo. Tutto questo rende la relazione fotografo/archivio un rapporto organico, a doppio senso, simbiotico, nel quale quotidianamente un elemento suggerisce all’altro nuovi percorsi e rivalutazioni di momenti non considerati o perduti.
Liliana: Nelle foto sulla spiaggia, attraverso la gente comune ed un luogo apparentemente banale racconti il quotidiano con ironia e poesia, trasformi l’ordinario in straordinario. Concordi?
Dario: Questa domanda suona come un complimento e ti ringrazio ma che forse così detto rischia di sopravvalutare una sequenza; la storia è molto semplice, non studiata, istintiva e vissuta più su un piano umano che su un piano tecnico o strategico; “Dalla mia sedia”, questo è il titolo della sequenza e della fanzine che ne è seguita rappresenta un esercizio di stile realizzato con uno smartphone, quando al termine dei procedimenti restrittivi a causa della pandemia covid, abbiamo deciso con la mia compagna di prenderci una vacanza marina per goderci l’effetto della natura sulla pelle, ne è nato uno sguardo stupito su una ritrovata umanità, un po’ l’effetto che i coniugi Christo realizzavano con l’occultamento di un’icona architettonica con dei teli per un tempo sufficientemente lungo per poi svestirla donando a vecchi e nuovi osservatori di ritrovare un’architettura smarrita e dimenticata nei suoi particolari. In quei sette giorni ho osservato qualcosa che era radicata profondamente nella mia esperienza dentro come se la guardassi per la prima volta; una ri-scoperta che avviene dopo una separazione durata mesi, che mi disvelava un’umanità fatta di bimbi in attività ludica, nonni con in braccio nipoti minuscoli, venditori di ogni cosa, ragazzi a cavallo, padri e madri con figli, fidanzati per mano e altro, altro ancora. Un popolo pronto a riprendersi i propri spazi emotivi, le proprie emozioni pronti a riconquistarsi un’affettività negata dal virus e dalle norme messe in atto per contrastarlo. E ancora due anziani passano davanti a me mano nella mano ancora dopo una vita (anche l’ipotesi che potessero essere amanti occasionali mi piace), le due adolescenti francesi, amiche con origini in diversi continenti che passeggiano conversando e ridendo sulla battigia. Il performante istruttore di windsurf che addestra un bimbo attraverso la parola, l’esempio e l’osservazione critica dei risultati del piccolo, quando quest’ultimo sale sulla tavola in un momento riconquista il suo status di figlio del vento, il venditore di aquiloni che disegna forme nel cielo, i bambini che corrono a tuffarsi nell’acqua da tutte le direzioni, coppie camminano con i loro cani raccontando con la loro postura la loro storia … non è forse questa la vita? Il lavoro fotografico fatto con uno smartphone non è un reportage pensato, rappresenta soltanto il divertimento di un uomo che per alcuni giorni staziona su una sdraio ai bordi di un mare meraviglioso, circondato dalla vita.
Forse era solo una riflessione, un invito alla mia piccola comunità fatta di amici ed ex studenti a fermarsi in un punto e attivare la facoltà dell’osservazione e della comprensione perché osservare e comprendere ci aiuta ad essere più vicini.
Liliana: Nel tuo lavoro di ricerca visuale antropologica non solo documenti la realtà ma dai ampio spazio alle emozioni.
Dario: Credo che la realtà sia un inganno generato dalla molteplicità dei punti di vista dei soggetti in campo e dalla loro posizione sulla scena. Voglio dire che le ragioni dello svolgimento di un evento spesso non sono leggibili nel tempo e nello spazio in cui siamo presenti, ma affondano radici in tempi e luoghi altri da quello della scena e quello a cui assistiamo e di cui diventiamo testimoni è la conseguenza di ciò che è già accaduto.
Nasce da qui, un gioco di cause ed effetti, di lanci e di rimandi che rende difficile l’individuazione di una realtà o ancor peggio di una verità; la fotografia raccogliendo e sintetizzando in un unico testo: indizi, punti di vista, simboli che galleggiano nell’oceano di una scena si accredita come strumento irrinunciabile per l’enunciazione di quesiti.
Al fine di riportare documenti frutto di una propria visione dei fatti che mantenga un’attinenza con la verità, il fotografo deve attrezzarsi approfondendo le vicende che sono il soggetto della sua ricerca, ascoltando le parti in gioco, attivando una sensibilità superiore, figlia della sensorialità in dotazione: la sola modalità di percezione in grado di leggere nello spazio invisibile dove si annidano brandelli di verità, ed usare questa capacità visionaria per porre questioni, illuminare lati oscuri senza coltivare la presunzione di formulare risposte. È questo il nostro modo di rappresentare la realtà, non accettandone l’inganno che è parte della sua natura.
Liliana: In questo periodo è molto diffusa la Streetphotography ed il web è pieno di collettivi dediti a questa disciplina, quale è il tuo pensiero?
Dario: Faccio difficoltà a rispondere perché più che un genere fotografico mi sembra una nebulosa con mille realtà diverse che vanno dalla descrizione geometrica del rapporto tra individui e territori ad un utilizzo di tipo didattico, ad un divertimento fine a se stesso, fino all’utilizzo nell’approfondimento di temi di carattere sociale. E tanto altro ancora. Prima di tutto mi sembra che oggi la streetphotography abbia cambiato completamente pelle rispetto alla sua antenata che nasceva come sviluppo ulteriore di una tendenza a raccontare la vita quotidiana in presa diretta. Basta fare un elenco superficiale di chi ha utilizzato nella storia con profitto questa disciplina e ne uscirebbe un elenco di autori ai quali la definizione di streetphotographer” potrebbe calzare troppo stretta…
Ad esempio non riesco a considerare il lavoro “The Americans” di Robert Frank o “New York” di William Klein lavori di strada e basta, con le dovute differenze sono reportages che analizzano e rivelano meccanismi profondi degli Stati Uniti nei rispettivi ambiti e tempi a cui fanno riferimento. Analogo ragionamento per ciò che succede nella Parigi di Izis o di Atget o nella Valparaiso di Larrain e per non fare elenco infinito mi fermo qui. A proposito di archivio, avendolo frequentato per cercare materiale per l’intervista, mi sono reso conto di quanto anche io abbia utilizzato preliminarmente nei miei lavori lo sguardo di strada: ad esempio come pretesto per addentrarmi in luoghi che non conoscevo che se avessi frequentato senza scattare fotografie, quindi senza definire in pubblico un mio ruolo, ci avrei messo molto più tempo ad individuare i temi per il mio progetto definitivo. Di fatto mi sono reso conto che il mio intrufolarmi nelle stradine della Città dei Morti al Cairo o per le strade sterrate nei villaggi di Haiti e dello Sri Lanka o per le strade della Sardegna in festa mi ha addestrato ad affrontare quei luoghi in modo più cosciente mettendomi a conoscenza di un alfabeto indispensabile se si vuole operare senza subire la parte negativa dell’esotismo che distoglie ulteriormente dal compito di documentare.
Liliana: Ritieni che la street sia una forma di arte e di comunicazione culturale?
Dario: Sì magari lo è, personalmente quando si parla di fotografia preferisco sostituire il termine artista con termini più adatti come autore o in modo molto più chiaro fotografo, e quando mi capita di essere definito in questo modo da altri, magari in una situazione pubblica, non puntualizzo nel rispetto del pensiero di chi in quel momento mi va presentando; è solo una definizione e non cambia la storia dell’operare di un fotografo, una definizione che ha lo stesso valore che una benedizione ha per un non credente: non fa male. Ma a parte questa digressione, spero portata con leggerezza, direi che le vicende dei colleghi che hanno operato o operano completamente in questo campo ci dice che la streetphotography è un’espressione autonoma e originale che ha come scopo quello di raccontare in presa diretta le piccole e grandi manifestazioni dell’umanità. In quanto tale apprezzabile.
Liliana: Negli ultimi mesi si nutre una forte preoccupazione riguardo all’impatto dell’IA sulla fotografia e sulla creazione di immagini. Alcuni arrivano a sostenere che possa compromettere l’autenticità della comunicazione fotografica. Cosa ne pensi?
Dario: A guardare le reazioni internazionali, il fatto che governi importanti alzino il livello di di guardia circa l’impatto di IA sulle democrazie è una cosa che desta qualche preoccupazione, basti pensare alla necessità registrata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che ha proposto e approvato una prima risoluzione universale relativa all’intelligenza artificiale con l’obiettivo di creare una regolamentazione internazionale delle tecnologie IA. Vuol dire che il rischio è grande. Per quanto riguarda la fotografia mi sembra che il primo settore che entra in relazione con IA senza grandi problemi potrebbe essere quello artistico che, essendo libero, senza vincoli e con una relazione tra verità e finzione non confessionale, potrebbe trovare le ragioni per un’alleanza. Mi piace l’idea del cortocircuito tra descrizione letteraria e produzione di immagini, chissà se è già possibile il contrario, ci troveremmo in un mondo dove un Joice potrebbe trasformare le sue immagini letterarie in opere visuali o che Pollok possa tradurre i suoi segni in un poema infinito. Anche settori come moda e pubblicità potrebbero avere trasformazioni importanti fino a far scomparire la figura professionale, che a quel punto transiterebbe verso il settore artistico o quello documentario, quest’ultimo è quello che nelle mie speranze e previsioni sembra essere più solido se non altro per la sua natura che implica un documento ed un testimone che ne attesti l’autenticità; un testimone che potrebbe avvalersi anche di tecnologie mutuata dall’IA al fine di migliorare la qualità e la precisione della comunicazione; mi è difficile però pensare ad un approccio documentario o giornalistico senza lo sguardo dell’uomo. Mi fermo qui in quanto memore di tanta letteratura terroristica, ingenua, sviluppatasi all’indomani della rivoluzione digitale in fotografia di cui oggi non resta traccia. Con la conoscenza attuale le ipotesi e i ragionamenti che si possono formulare sono infiniti, sono convinto, però, che da quando è nata la fotografia ha vissuto molti cambiamenti epocali accompagnati ogni volta da annunci della morte della fotografia. Come ricordavo sopra, anche abbastanza recentemente, nella fase di passaggio dalla fotografia analogica a quella digitale c’è chi ha pianto la sua scomparsa, a tal proposito mi conforta pensare che sono ancora qui, reduce da un lavoro fotografico e pronto per partire per un’altra avventura documentaria fra pochi giorni, e poi un’altra tra alcune settimane e penso che questa fotografia sarà pure morta: ma quanto mi piace praticarla.
DARIO COLETTI (Roma, 1959) è fotografo professionista e dalla fine degli anni ottanta collabora con testate giornalistiche, istituzioni e organizzazioni umanitarie italiane e internazionali. Da sempre attento alle tematiche del sociale, negli ultimi anni è approdato a una fotografia di più ampio respiro, approfondendo il rapporto tra fotografia e antropologia visiva e sperimentando altri linguaggi visivi come il film documentario. Alla professione affianca l’attività didattica ed è oggi coordinatore del Dipartimento di Fotogiornalismo dell’ISFCI a Roma. Attualmente collabora con l’Associazione Malik di Cagliari come responsabile del settore immagine all’interno dell’iniziativa “I libri aiutano a leggere il mondo” (Cagliari 2013-2017), con la rivista “Il Calendario del Popolo” (Roma 2013-2016) dove segue la rubrica di commento fotografico: “mms” e dove è membro del comitato scientifico e con la rivista online e cartacea “Sentire”. Le sue fotografie sono conservate presso biblioteche e musei italiani.
MOSTRE
Ha partecipato a diversi progetti espositivi collettivi sulla fotografia italiana, tra cui: “Unescoitalia” del Ministero per i Beni Ambientali e Culturali (itinerante dal (Bruxelles 22/01/2007); Wonders of Italy (Bruxelles 2007); Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005-linee di tendenza e percorsi (Milano 2006); La grande illusione, (Roma – Temple University 2014). Sue mostre personali sono state ospitate in Italia e all’estero e il suo lavoro ventennale sulla Sardegna è stato esposto al “Festival Internazionale della Fotografia” di Roma in una grande retrospettiva (2007) e in una collettiva (2012) e ha partecipato al “El mes de la fotografia en Guatemala” – Città del Guatemala settembre – ottobre 2010 “Famiglia Sardinia”. Ha inoltre esposto dal 1994 a oggi progetti personali in gallerie e musei internazionali come: l’Opera House del Cairo, la Galleria Mole di Tokyo, Palazzo delle Esposizioni di Roma, il Centro Santa Chiara di Trento, EX MA’ e il Castello San Michele di Cagliari, Su Palatu di Villanova Monteleone.
Recentemente è stato insignito del “Premio Internazionale Flaiano Fotografia” alla carriera, in occasione della seconda edizione del Festival Internazionale di Fotografia e Giornalismo a Pescara.
testo di Liliana RANALLETTA